20 febbraio 2019

Sono un italiano nero

Che ero diverso l’ho imparato stando in mezzo agli altri. Da solo a volte mi riusciva essere felice, tra le persone invece recitavo. Mi guardavano con la coda dell’occhio le prime volte che sentivano il mio cognome, quando la maestra o il medico faceva fatica a pronunciare tutte quelle consonanti vicine.

Quando leggendo la città in cui ero nato, sorridendomi mi dicevano “Ma allora sei italianissimo”, “Sei più italiano di me”. Come se attribuire  una cittadinanza occidentale fosse un complimento.



Come se dire davanti a tutti con il sorriso stampato in volto che non ero un africano, perchè per loro l’Africa era un paese, mi rendesse più normale e forse anche più giusto ed educato.

Dimenticavano mentre provavano  ad essere simpatici e amichevoli  che l’educazione non me l’aveva insegnata l’Italia, ma i miei genitori e  che non spettava a loro dirmi chi fossi. In me non vedevano un essere umano, ma un nero.

“Come sono i tuoi amici?”, “Che lingua parlate in casa?”, “L’Italia è un paese razzista?” mi chiedevano dietro i loro occhiali spessi.  
Un’idea di me stesso a quell’eta non l’avevo ancora e avrei voluto  trovare la forza di non voler per forza farmi accettare.  
Capire che potevo esistere anche senza il consenso del prossimo.  Avere il coraggio di reggere la solitudine e urlare in faccia a questo paese che anche io non lo volevo che il sentimento era reciproco. Lo spirito fascista italiano quando mio padre si  lamentava della sua condizione  ribadiva che doveva essere contento di quello che aveva che doveva stare al suo posto  senza il  diritto di pretendere. “Sei fortunato” avrebbero voluto urlargli in faccia quando mangiava  nei loro ristoranti e cercava posto sui loro bus.  Evitato ogni sguardo come una difesa spontanea e in quei momenti non sapevo più cosa dirmi e credo che lasciarsi andare così mi abbia portato a scomparire.

Tratto da - Non ho mai avuto la mia età (Antonio Dikele Distefano)

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