30 aprile 2020

Una sterilizzazione di massa

Era il 1973 quanto Katie Relf, una donna di colore dell’Alabama, povera e analfabeta,  firmò con una X un documento in cui autorizzava, senza saperlo, la sterilizzazione chirurgica delle sue due figlie minorenni e mentalmente disabili: Mary Alice, di quattordici anni e Minnie, di dodici. Katie pensava di aver approvatol’inserimento della spirale intrauterina per le bambine che invece vennero private, senza il consenso informato di nessuno, dei loro diritti riproduttivi. L’anno seguente, il Southern Poverty Law Center, un’organizzazione nata appena tre anni prima per aiutare gli afroamericani che vivevano in condizioni di estremo disagio sociale, squarciò il velo rivelando che una grandissima quantità di persone indigenti era stata sterilizzata seguendo le direttive di un programma federale.
Sorelle Relf
Quando si parla di eugenetica, si pensa subito al nazismo. L’idea che la manipolazione genetica e la selezione delle nascite possa portare al miglioramento della società era molto diffusa agli inizi del secolo scorso, con il beneplacito di medici, legislatori e intellettuali. Quest’idea si basava su un principio molto semplice, ovvero che la società andasse ripulita da tutti quegli individui che avrebbero potuto ostacolare la perfezione della razza e il progresso – disabili, persone affette da malattie mentali o appartenenti a razze considerate inferiori, omosessuali. Una soluzione per perseguire questo obiettivo, prima di passare all’eliminazione fisica con l’Aktion T4,sotto il regime nazista, fu la loro sterilizzazione. Le Erbgesundheitsgerichten, le “Corti per la salute ereditaria” istituite nel 1933, erano gli organi nazisti preposti al controllo delle nascite che fino alla caduta del regime sterilizzarono fino a 400.000 persone.
In realtà, però, i prodromi dell’eugenetica non nascono da dittature e regimi oppressivi, ma dai democraticissimi Stati Uniti, dove istituzioni private come la Rockfeller Foundation finanziavano studi e ricerche a cui partecipò anche Josef Mengele, passato alla storia come il “medico della morte” di Auschwitz. Questi studi venivano condotti principalmente nelle prigioni e presso il New York Bureau of Industries and Immigration sugli immigrati ebrei e italiani, tra le vittime di sterilizzazione coatta più colpite. Far sì che queste popolazioni non proliferassero contaminando quella americana era considerato un dovere morale. Il delirio “progressista” dell’eugenetica non riusciva a individuare una connessione tra il disagio sociale degli immigrati e le loro condizioni di vita disumane, ma trovava più che ovvio pensare che criminalità, malattie e analfabetismo fossero conseguenze dirette dell’appartenenza a una razza inferiore, come erano viste quella italiana, ebrea o latina. Poiché fermare l’immigrazione sembrava impossibile, l’unica soluzione a cui si pensò fu quella di cercare di bloccare la riproduzione dei nuovi arrivati.
Il governo non solo approvò i programmi di sterilizzazione forzata, ma li portò avanti fino agli anni ’70. Si stima che dagli anni ’30 fino alla conclusione del piano, negli Stati Uniti siano state sterilizzate 65.000 persone. Queste sterilizzazioni avvenivano spesso coattivamente su individui che non avevano facoltà di scelta, ad esempio nei manicomi, oppure con l’inganno, come nel caso delle due sorelline Mary Alice e Minnie. I “pazienti” venivano spesso convinti dai medici di avere malattie incurabili, oppure alle donne che volevano abortire veniva praticata l’isterectomia, la rimozione dell’utero, senza un vero motivo medico. In altri casi, compagnie assicurative o programmi di welfarestatali si spingevano verso zone rurali, soprattutto negli Stati del Sud, e proponevano la sterilizzazione tubarica o la vasectomia come soluzioni contraccettive gratuite e veloci, senza che le vittime conoscessero realmente le conseguenze di tali interventi. Inizialmente i programmi di sterilizzazione furono pensati come tentativi di fermare un “morbo” – che fossero vere e proprie malattie mentali o soltanto condizioni di disagio sociale – ma verso gli anni ’60 si trasformarono in un vero e proprio modo per controllare le donne, soprattutto quelle di colore. Bastava infatti molto poco per bollare una ragazza sessualmente promiscua come “minorata mentale” e poter procedere in modo del tutto legale alla sua sterilizzazione.
Da un lato, la sterilizzazione forzata, secondo l’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, costituisce un crimine contro l’umanità, perché viola i diritti fondamentali alla riproduzione e alla salute; dall’altro, è un crimine di genere, perché sebbene sia stata spesso imposta sia a uomini che a donne, ha colpito più duramente quest’ultime, soprattutto quelle facenti parte di una minoranza (afroamericane, latine o native). Quasi tutte le vittime di sterilizzazione forzata erano in qualche modo già sottoposte al controllo dello Stato, tramite, ad esempio, l’edilizia popolare, le indennità di disoccupazione, gli istituti per la salute mentale o le istituzioni carcerarie. Il governo, per convincere le donne a firmare i documenti di autorizzazione alla sterilizzazione, faceva presa sulla loro coscienza puntando su temi già molto delicati, come la povertà o l’inadeguatezza al ruolo di madri. Agendo su soggetti già fragili, le conseguenze della sterilizzazione forzata erano e sono tuttora devastanti, dalla Sindrome Post Traumatica da Stress alla perdita di identità. Non da ultimo, il fatto che nella maggior parte dei casi queste persone provenissero da gruppi di minoranza ha aggiunto ai disagi della maternità privata anche l’impossibilità di identificarsi in una comunità. L’auto-definizione, secondo l’autrice Dorothy Roberts, è un fattore fondamentale per l’identità delle donne afroamericane, perché lo Stato per lungo tempo gliene ha negata una. Le donne di colore si sono autocostruite un’identità sulla base del loro genere e della loro etnia, rivendicando il loro ruolo di minoranza tramite una comunità autoprodotta. Essere sterilizzata in una comunità simile ti rende ancora più minoranza di quanto non fossi prima: vivi la tua sterilizzazione non solo come “punizione” per il fatto che sei una donna, ma soprattutto perché sei una donna nera. La tua integrità corporea è venuta meno, così come la possibilità di coesione al gruppo delle “madri”, che diventava cruciale in un contesto come quello statunitense degli anni ’50 o ‘60, dove gran parte dell’identità delle donne di colore si affermava proprio attraverso la maternità.
Il corpo delle donne è stato più volte, in particolare negli Stati Uniti, terreno di una battaglia politica dove l’autorità è intervenuta per imporre le proprie idee conservatrici e retrograde. Basti pensare tutt’oggi alle dure regolamentazioni sull’aborto, all’ossessione del sistema educativo per il tema dell’astinenza, che più che educare umilia gli adolescenti sessualmente attivi, oppure alla difficoltà, soprattutto per le donne di colore, di beneficiare di cure ginecologiche e ostetriche adeguate, come dimostra il fatto che il tasso di mortalità durante il parto di quest’ultime sia tre volte superiorea quello delle donne bianche. Lo scorso ottobre, l’amministrazione Trump ha eliminato un mandato dell’Obamacare che garantiva la copertura contraccettiva gratuita da parte delle aziende per le impiegate di sesso femminile, rendendo possibile il rifiuto di questa protezione sulla base di “obiezionimorali o religiose”. Ma questa è una triste tradizione che va avanti fin dalla fine dell’Ottocento, quando si passò dalla massiccia sterilizzazione degli uomini nelle carceri e nei manicomi a quella delle donne comuni, che avevano la sola sfortuna di essere nate povere e nere. Il corpo libero delle donne era visto come una minaccia imprevedibile e irrazionale, come vuole lo stereotipo della donna indomabile e “isterica”. Le intrusioni dello Stato non riguardano le donne in quanto soggetti, ma in quanto corpi che non possono liberamente autodeterminarsi, e di cui ci si arroga il diritto di controllare, delimitare e imprigionare. Il primo bersaglio da colpire è la sessualità: rendere la contraccezione e l’aborto procedure impossibili e costose, inculcare l’idea che ogni rapporto sessuale sia il male, mutilare la donna privandola dei suoi organi riproduttivi. Lo Stato si pone come garante della salute pubblica e individuale ricorrendo a queste misure per nascondere dietro la scusa della sua funzione pedagogica, una ben più radicata funzione coercitiva e autoritaria.
Il problema della sterilizzazione forzata non è parte esclusiva del passato americano,  purtroppo è ancora ben presente. Le migliaia di vittime, sottoposte alla procedura negli anni ’60, ’70 e ’80, magari quando erano ancora bambine, portano ancora addosso i segni fisici e psicologici di questa violenza, senza che nessuno abbia mai chiesto loro scusa o le abbia risarcite in qualche modo. E, come se non bastasse, esistono casi in cui la sterilizzazione forzata è stata praticata in tempi recenti.
Nonostante in molti degli Stati sia stata dichiarata illegale, la procedura viene tuttora eseguita, soprattutto nei confronti delle donne afroamericane. Si stima che nel 1990, a vent’anni dalla fine del programma federale, il 24% delle donne di colore sia stata sterilizzata in modo coatto. Molto spesso queste operazioni venivano eseguite dopo un aborto in giovane età in contesti sociali difficili, come racconta Maria in una puntata del podcast “The Heart”. Maria, una ragazza di origini portoricane rimasta incinta a 15 anni, andò in una clinica per abortire e si risvegliò dall’operazione senza utero, dopo che il personale medico le aveva detto: “Questo è quello che ottieni quando fai sesso così presto”. Ma il caso più grave, per la sua diffusione e sistematicità, è quello delle prigioni. Nelle carceri californiane, tra il 2006 e il 2010, circa 150 donne sono state sterilizzate tramite legatura delle tube su volontà dei medici e dei dipendenti del carcere grazie ai fondi erogati dallo Stato della California, nonostante il Titolo 42 delle leggi federali dedicato alla sanità pubblica proibisca esplicitamente la sterilizzazione di “qualsiasi individuo incapace o internato”. I dipendenti delle carceri, incalzati dalla redazione del Center for Investigative Reporting, a loro difesa dissero che stavano semplicemente fornendo un importante strumento per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Uno strumento che disumanizza le donne considerate inadatte al miglioramento della società. Il caso delle prigioni californiane dimostra come ancora oggi il germe dell’eugenetica e del progresso a tutti i costi sia ben radicato in una società come quella americana che eppure si professa civile e democratica.
È vero che la maggior parte degli Stati ha cancellato le leggi sulla sterilizzazione forzata, ma in alcuni, come ad esempio lo Stato di Washington, esistono ancora. Nel 2011, la North Carolina ha avviato le procedure per risarcire le vittime di sterilizzazione forzata costituendo l’NC Justice for Sterilization Victims Foundation e stanziando, a partire da giugno 2015, dieci milioni di dollari da distribuire a 7.600 persone. Ma è l’unico Stato americano ad aver pensato a un risarcimento – per quanto possa contare. Si deve fare ancora molto per dare riconoscimento e dignità alla storia delle sterilizzazioni forzate negli Stati Uniti. Le istituzioni, a parte le scuse pubbliche e i tentativi di risarcimento, non sembrano far nulla per creare sensibilizzazione su questa pagina importante della storia recente americana. Gruppi di studiosi e ricercatori, come quello guidato da alcune scholars dell’Università del Michigan e dell’Illinois, stanno conducendo studi per cercare di definire tutti i numeri del fenomeno e, soprattutto, invitare le superstiti a far sentire la propria voce. Al momento, sono gli unici testimoni di questa storia. L’impressione è che gli Stati Uniti abbiano grosse difficoltà non tanto ad assumersi la responsabilità, ma anche solo ad ammettere di aver violato sistematicamente i diritti umani per più di cinquant’anni. Nel 2014, un anno dopo lo scandalo delle carceri, la California ha vietato la sterilizzazione nei penitenziari a eccezione di casi che compromettano la salute pubblica. Si stima che dal 1909 al 1963, nella sola California siano state sterilizzate 20.000 persone. Nessuna di queste è stata mai risarcita

24 aprile 2020

Perché inventiamo sempre dei nuovi problemi

In questo mondo è tutto così terribile o le cose stanno migliorando? È un tema di cui si discute molto perché entrambe le cose sembrano vere. Da una parte, sarebbe sciocco non tener conto delle statistiche (povertà, violenza e malattie stanno veramente diminuendo); dall’altra, non possiamo ignorare le orribili notizie che sentiamo ogni giorno. Perciò sono grato a un affascinante studio, pubblicato di recente dalla rivista Science, che getta nuova luce sulla questione. Anche se parte da una domanda apparentemente assurda che sembra non avere niente a che fare con l’argomento: come definireste un “puntino blu”?
Ai partecipanti all’esperimento sono state mostrate centinaia di puntini di colori che andavano dal viola intenso al blu scuro, e per ciascuno dovevano dire se era blu o no. Ovviamente, più il puntino era scuro, più le persone tendevano a dire che lo era. Ma la cosa interessante è successa quando i ricercatori hanno cominciato a ridurre la percentuale dei puntini blu.
Espansione strisciante del concetto
Più quelli che lo erano oggettivamente diminuivano, più la definizione di blu dei soggetti si allargava e cominciavano a classificare come blu anche quelli violacei. La loro idea di blu era diventata più estesa, un fenomeno che gli autori dello studio hanno chiamato “cambiamento di concetto indotto dalla prevalenza”. Questo chiaramente non ha niente a che vedere con problemi sociali come la povertà e il razzismo, o forse sì.
Qualcuno sostiene che viviamo in un’epoca in cui concetti come quelli di “trauma” o di “violenza” sono stati estesi fino a includere cose di cui quasi nessuna generazione precedente si sarebbe preoccupata (il termine usato in inglese per questo fenomeno è concept creep, l’estensione strisciante del concetto).
Da qui nasce l’idea che un certo modo di parlare equivale a una violenza. O che lasciar andare da solo a scuola un bambino di otto anni significa abbandono di minore. O, per prendere un esempio dall’attuale dibattito sull’identità di genere, che mettere in discussione il modo in cui una persona preferisce spiegare la propria esperienza di genere significa negare il suo diritto all’esistenza.
Dalle fasi successive dello studio sui puntini blu è emerso che “il cambiamento di concetto indotto dalla prevalenza” influisce anche su questo. Per esempio, se chiediamo a un gruppo di persone di classificare una serie di facce come “minacciose” o “non minacciose” e poi riduciamo il numero delle prime, definiranno minacciose anche facce dall’espressione più neutrale.
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Se chiediamo di classificare una serie di proposte come morali o immorali, e riduciamo il numero di quelle immorali, i soggetti allargheranno il loro concetto di “immorale” anche a quelle morali. Per dirla con Dan Gilbert, uno degli autori dello studio, “quando i problemi diventano meno numerosi, cominciamo a considerare più cose come un problema”.
Questo ha enormi implicazioni per le persone con una mentalità progressista, perché fa pensare che, anche se le cose stanno migliorando, abbiamo difficoltà a percepirlo, perché tendiamo a vedere nuovi problemi. Il che non significa che non siano reali. Questo atteggiamento non è sempre sbagliato. Per usare l’analogia di Gilbert, è giusto che un medico del pronto soccorso consideri più urgente una ferita da arma da fuoco rispetto a un braccio fratturato, mentre se non c’è nessuna ferita da arma da fuoco da curare, fa benissimo ad allargare il suo concetto di “urgenza” a un braccio fratturato. Ma è anche vero che un neurologo non dovrebbe allargare la sua definizione di “tumore al cervello” solo perché non ne ha riscontrato nessuno.
Per quanto riguarda i problemi sociali – o i nostri personali – la questione sta nel chiederci se la cosa che ci preoccupa è più del primo o del secondo tipo: un problema veramente serio, o uno che abbiamo praticamente inventato? Sembra che niente stia migliorando, ma forse abbiamo questa sensazione perché continuiamo a spostare i paletti.
Da ascoltare
Dato che secondo le statistiche il mondo sta migliorando, non dovremmo smettere di preoccuparci? I sostenitori delle due tesi ne discutono in The new optimism, una puntata del podcast Intelligence squared.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

21 aprile 2020

Pensare positivo non basta

Pensare positivo non ci porta a essere realizzativi. È la teoria di Gabriele Oettingen, docente di psicologia alla New York University e all’Università di Amburgo.
Aveva dunque torto Jovanotti. Ma non solo lui. Del culto dell’ottimismo ne hanno fatto un modus vivendi un po’ tutti. Da sempre. Marco Aurelio si soffermava sulla bellezza della vita, Samuel Johnson diceva che il lato positivo di ogni evento vale più di mille sterline l’anno, il presidente Dwight Eisenhower dichiarò che ‘il pessimismo non ha mai vinto una battaglia’, Charlie Chaplin affermò: ‘Non troverai mai un arcobaleno se stai guardando per terra’. Per non parlare di politici di ogni livello che blandiscono la popolazione vendendo ‘sogni americani’ e cercando di presentarsi come glialfieri della speranza. Ma anche di economisti che registrano la ‘fiducia dei consumatori’ e apprezzano le previsioni dei leader di mercato in base a quanto sono ottimistiche. Pure la pubblicità propone persone felici e ottimistecome modelli di successo. C’è una massima che circola in rete che recita: “Sognalo. Desideralo. Fallo”.

Invece secondo le ricerche scientifiche svolte dalla Oettingen così facendo non si arriva da nessuna parte. Lo sostiene nel libro Io non penso positivo edito da Tlon.
Abbandonarsi alle fantasie che riguardano il futuro non ci fa agire in maniera costruttiva”, spiega. “Nonostante nel breve termine possa risultare piacevole, in realtà non fa altro che svuotare il nostro impegno e condurci a esitare continuamente”. Gli esperimenti effettuati in 20 anni di studio hanno dimostrato che le fantasie positive ci impediscono di gestire compiti difficili, ma spronano a compiere quelli facili. Non ci aiutano, quindi, a dimagrire, a smettere di fumare, a trovare lavoro, ma ci servono per rimanere vivi nel deserto, per resistere alla repressione politica, per mantenere la fiducia mentre aspettiamo la sentenza del nostro fidanzato.
Alle fantasticherie non bisogna chiedere più di quello che possono darci. Se ne comprendiamo e riconosciamo i limiti, saranno nostre alleate e non ci freneranno nella vita. Ma per realizzare i nostri sogni, dobbiamo innanzitutto mettere a fuoco le barriere e gli ostacoli che ci impediscono di portarli a termine.
Nello specifico la ricerca della Oettingen propone una procedura di quattro passaggi basata sul contrasto mentale, chiamata WOOP, acronimo di Wish, Outcome, Obstacle, Plan, ovvero desiderio, risultato, ostacolo, piano.
In pratica, da un desiderio, identificato il risultato migliore, con un piano, e con le connessioni cognitive tra futuro, ostacolo e comportamento utile, ci troviamo nella posizione di gestire le difficoltà e affrontare con maggiore sicurezza la situazione. Cosa che vale per qualsiasi circostanza della vita.
“Mettiamo il caso che tu stia per salire su un palco per parlare davanti a duecento persone”, chiarisce la ricercatrice. “Hai tre minuti per fare il tuo esercizio di WOOP. Qual è il tuo desiderio? Fare un buon lavoro. Che risultato vorresti ottenere? Entrare in sintonia con il pubblico e riuscire a trasmettere il tuo messaggio. Immaginalo. Cosa c’è dentro di te che fa da ostacolo? Forse si tratta di un’ansia generale, ‘mi imbarazzerò’, o di un problema tecnico più specifico ‘parlo troppo velocemente’. Fatto questo, le strategie si materializzano con facilità: ‘Se ho l’ansia, ricorderò a me stesso di aver già fatto cose del genere con successo’, ‘se mi dovessi accorgere di parlare troppo velocemente, rallenterò”.
Ebbene, secondo Gabriele Oettingen, i nostri sogni possono essere realizzabili, ma non sono altro che sfide che richiedono impegno e azione. “La soluzione, confermata dagli esperimenti condotti, non è fare a meno dei sogni e del pensiero positivo”, afferma. “Anzi, si tratta di realizzare le nostre fantasie mettendole in contatto con la cosa che ci hanno insegnato a ignorare o a minimizzare: gli ostacoli che si trovano sul nostro percorso”.

15 aprile 2020

Scegliere di rimanere in ombra

Scegliere di non pubblicizzare le proprie buone azioni o le doti intellettuali può essere vantaggioso nel lungo termine. Uno studio svela che a fronte di un costo iniziale maggiore chi è più riservato può avere successo.
Non rivelare a tutti il proprio titolo accademico, fare donazioni in maniera anonima, non esaltare le proprie doti intellettuali o artistiche: a volte scegliamo di rimanere in ombra piuttosto che esibire le nostre azioni o capacità. Questa scelta, prova della nostra modestia, può non portarci il giusto riconoscimento da parte degli altri, soprattutto all’inizio, ma a lungo termine può rivelarsi vantaggiosa.
A studiare le radici del comportamento modesto è un gruppo di ricerca dell’Istituto di scienza e tecnologia in Austria. I risultati sono pubblicati su Nature Human Behaviour.
Da cosa dipende la scelta di non svelare – o almeno non sempre – un’azione generosa, un’abilità particolarmente sviluppata o un risultato di qualità, e perché gli altri la trovano apprezzabile? Questa la domanda che si sono posti gli autori, secondo cui non diffondere alcuna informazione è già di per sé un segnale. Le motivazioni possono essere di vario tipo: ad esempio, il donatore non desidera fare una buona impressione su tutti, ma soltanto su chi è in grado di cogliere e riconoscere la sua buona azione o la sua opera, se si tratta di un artista. Il donatore può essere sicuro che un certo “pubblico”, quello a cui si rivolge, saprà individuare ed apprezzare la sua produzione, senza bisogno di pubblicizzarla.
Per capire quali sono i percorsi della modestia, i ricercatori hanno proposto un gioco virtuale in cui un gruppo di volontari venivano divisi in mittenti, che nella realtà corrisponderebbero a ipotetici donatori o persone con elevate qualità in ambito umano, economico o sociale, e persone riceventi, ovvero il pubblico che osserva dall’esterno le azioni altrui. Ciascun donatore può fare regali di grande, medio o basso valore, ma i riceventi non sono a conoscenza di quanto può donare. I destinatari, inoltre, possono decidere liberamente se interagire economicamente o meno con i loro partner (accettandoli o meno nel gioco ) e la scelta si basa soltanto sui segnali che i donatori possono mandare.
All’inizio, il donatore sceglie fra tre azioni: non inviare alcun segnale, lasciando decidere il partner senza informazioni, mandare un segnale chiaro, che verrà sempre e sicuramente intercettato, oppure inviare lo stesso segnale ma tenendolo nascosto (in entrambi i casi l’invio ovviamente ha un costo, seppure virtuale). Solo in pochi casi il destinatario riceve il segnale inviato in maniera anonima. A questo punto tocca al ricevente scegliere se accettare o meno il donatore come partner economico.
Si tratta di un gioco matematico che combina qualità umane e strategia: nel caso in cui le informazioni vengano tenute sempre nascoste, infatti, il rischio è che i destinatari non vengano mai a conoscenza delle qualità del donatore. “Volevamo comprendere qual è l’evoluzione naturale più probabile e stabile delle strategie scelte”, ha spiegato Christian Hilbe, co-primo autore del paper. L’idea è quella di capire anche quali sono i comportamenti che ci permettono di guadagnare o non perdere la stima degli altri. In particolare, i ricercatori hanno mostrato che lo scenario più comune, che rispecchia ciò che avviene nella realtà, è quello in cui chi invia molti segnali (che corrisponde nella realtà ad una persona che fa molte donazioni) lo fa sempre sempre in maniera anonima, mentre i donatori “medi” a volte mantengono il riserbo e altre volte no. Infine chi dona poco risparmia e non manda mai segnali. La scelta di essere sempre modesto, inoltre, nel caso di un partecipante che dona molto, paga: nel gioco i riceventi decidono più spesso di accettarlo.
I ricercatori, inoltre, hanno sviluppato diverse varianti del gioco per rappresentare quanti più scenari possibili: ad esempio, in un caso il donatore aveva ancora una maggiore libertà di scelta sulla possibilità su quanto rivelare le sue buone azioni. Risultato? I donatori di alto livello tendevano ad essere modesti, ma non troppo, spiegano gli autori, preferendo una giusta dose di riservatezza“Anche se sei modesto non cerchi mai di essere il più umile fra gli umili”, sottolinea Hilbe. Questo modello potrebbe aiutare ad avere nuovi punti di vista sui comportamenti di alcune persone, come un innamorato che tiene segreto il suo interesse, senza mettersi in mostra, un professoreaccademico che non esibisce i suoi titoli oppure un artista che crea opere contenenti messaggi nascosti.

12 aprile 2020

Qundo tocchi il fondo

E’ proprio quando pensi di morire di dolore, di dover affrontare una situazione che supera di gran lunga le tue capacità, la tua fantasia, le tue possibilità, che scopri una parte di te sconosciuta e importantissima. E’ li che viene fuori la grinta, la voglia di farcela, la necessità e la responsabilità di andare oltre. E’ proprio quando senti che stai definitivamente per soffocare, che finisci per imparare a respirare.
Anton Vanligt

6 aprile 2020

Lasciano comunque il segno

Eventi traumatici, ma anche stress prolungati o la deprivazione affettiva lasciano il segno. Non si tratta di un modo di dire, ma di una ben chiara realtà. Di solito ci si riferisce alle “cicatrici” emotive, in grado di cambiare il modo in cui una persona reagisce e si comporta, alterando anche il modo di pensare, di relazionarsi con gli altri e di agire in tutti gli ambiti della vita, non solo quello traumatizzato. Per fare chiarezza abbiamo definito questi cambiamenti modificazioni funzionali perché indicano proprio il modo in cui noi funzioniamo.
D’altra parte esistono importanti modificazioni strutturali. Infatti possono modificarsi – e anche significativamente – il numero di connessioni nervose, lo sviluppo di una determinata aree cerebrale, i collegamenti tra diverse strutture del sistema nervoso e i neurotrasmettitori che li fanno comunicare. Le modificazioni possono avvenire anche a livello non direttamente cerebrale, ad esempio con una riduzione del microbiota intestinale, con l’invecchiamento precoce di cellule che possono essere in ogni parte del corpo, modificando la creazione di proteine coinvolte nell’espressione genica del DNA.
Le modificazioni strutturali, com’è intuibile, porteranno delle modificazioni funzionali. Ad esempio se l’area del cervello preposta alla presa di decisione si riduce in dimensione e in capacità di trasmettere i segnali correttamente, sarà più difficile fare valutazioni e decisioni accurate. Ma è vero anche il contrario: una modalità disfunzionale, alla lunga, altera anche la struttura. Per fare un’analogia, se usate una forchetta in modo improprio, ad esempio spingendola con più forza del necessario contro il piatto, dopo qualche mese le punte si deformeranno e, come ulteriore conseguenza di ritorno sul piano funzionale, sarà più difficile usarla. Grazie alle moderne tecniche di indagine è oggi possibile studiare sia le alterazioni funzionali che quelle strutturali, individuando anche i meccanismi che legano reciprocamente i due livelli.
In questo articolo cominceremo ad analizzare alcune delle più significative alterazioni che avvengono a seguito di forti stress, emozioni cronicamente disfunzionali, deprivazioni affettive o relazioni distruttive. Individueremo alcune importanti connessioni tra sistemi e funzioni, per arrivare a capire come e in che modo possiamo aiutare in modo completo ed efficace chi si trova in queste condizioni. Seguiranno altri articoli di approfondimento. Se non li vuoi perdere iscriviti alla newletter

CHE COSA CAMBIA

NETWORK CEREBRALI E SISTEMA DI SICUREZZA

Con il termine Default Network si indica l’insieme di circuiti cerebrali che collega diverse aree laterali e mediali connesse, tra l’altro, con il pensiero e la memoria. Possiamo immaginarlo come un elettrodomestico in stand-by o, più modernamente, come un’applicazione sul computer o sul telefono che è sempre attiva ma in background, pronta ad aiutarci a capire come dobbiamo muoverci. Queste connessioni ci permetto di distinguere che cosa è rilevante e che cosa non lo è, in modo da poter rispondere prontamente alle richieste dell’ambiente”.
Quando si rimane in stato di allerta o stress prolungato il Default Network va offline, non supporta più le persone a distinguere correttamente e a capire che cosa fare. Chi ha affrontato gravi stress durante la prima infanzia, non solo fatica ad accedere a questo network (essendo sempre in stato di iper-attivazione di allerta) ma ne presenta proprio un minore sviluppo in termini di numero di connessioni. Diventa pertanto fondamentale riportare il Default Network in fisiologia, in modo che riprenda la sua attività di base durante la vita quotidiana.
Fortunatamente per farlo ci sono tanti modi: dalle tecniche meditative, all’attività fisica aerobica, allo stare più tempo nella natura, fino a tecniche più specifiche di integrazione attraverso il movimento fisico, appositi esercizi di equilibrio fisico in concomitanza con stimolazioni emotive, esercizi di coordinazione neuromotoria con attività mirata sulle aree del network.
Ad esempio nel nostro approccio per l’Integrazione dei Sistemi Interconnessi abbiamo sviluppato tecniche di contrazioni isometriche unite a un lavoro specifico sulle emozioni e tecniche mirate a rendere veloce e fluida l’attivazione e disattivazione del Default Network tramite l’alternanza di attività con diversi gradi di coinvolgimento psico-fisico.
In situazioni di potenziale pericolo entra in gioco un altro network, noto come Salience Network. Il suo compito è di valutare gli stimoli esterni (provenienti dagli organi sensoriali) e interni (provenienti dall’amigdala) e decidere se attivare il Default Network o il Central Executive Network, deputato all’attivazione esecutiva. Questo rende evidente come, oltre a riportare in fisiologia il Default Network, sarà importante intervenire anche sugli aspetti percettivo-sensoriali e sulla buona risposta dell’amigdala.
Anche in questo caso è possibile usare degli accorgimenti quotidiani, come valutare gli stimoli nella periferia del campo visivo a cui si è più spesso esposti, variare la distanza di messa a fuoco più spesso di quanto si faccia stando per ore davanti a un monitor o televisore, ma anche agire con esercizi mirati di movimenti oculari e stimolazioni sensoriali dirette e indirette anche su tutti gli altri sensi.

DIMENSIONI E CONNESSIONI CEREBRALI

Forti stress prolungati hanno effetti anche diretti sulle strutture cerebrali e di tutto il sistema nervoso. Ad esempio l’ippocampo tende a ridurre le sue dimensioni e le sue funzionalità. Dato che si tratta di un’area del cervello coinvolta nell’elaborazione delle risposte emotive, della memoria e delle risposte di stress diventa evidente come una sua modificazione possa interferire in negativo con le future abilità di auto-regolazione.
Allo stesso modo ci sono numerose ricerche che dimostrano che persone esposte a più ACEs (Adverse Childhood Experiences) possono avere anche uno sviluppo ridotto della corteccia prefrontale (fondamentale nelle operazioni di problem solving) e dell’amigdala (altro organo fondamentale per le risposte emotive e interpersonali di base). Si tratta anche di una riduzione dei collegamenti tra diverse aree cerebrali. Persone che hanno vissuto più di due esperienze avverse significative durante l’infanzia presentano minori connessioni della norma, ad esempio tra corteccia prefrontale e amigdala, collegamento fondamentale per adeguare le risposte emotive a quello che ci succede.
Per favorire lo sviluppo delle aree cerebrali e dei relativi collegamenti sono fondamentali sia una corretta nutrizione, che permetta di avere il materiale a disposizione per “costruire e collegare” a livello cerebrale, sia l’attivazione fisica. Potranno essere usati alcuni degli esercizi descritti nel punto precedente, più altri mirati a questo scopo. Ad esempio l’introduzione di quelli che abbiamo chiamato Esercizi di Padronanza Interna ed Esterna, che seguono determinati schemi ripetitivi o con variazioni, la presenza di un ritmo costante o di cui si controlla la variazione permette di sviluppare la struttura e, al contempo, le funzioni collegate (in questo specifico esempio la concentrazione, il controllo sia mentale che emotivo, e il saper trasformare in qualcosa d’attivo l’attesa e la frustrazione).connessioni cerebrali
Infine anche gli esercizi in cui si fanno interagire pensiero ed emozioni sono utili a questo tipo di finalità. Ci possono essere tanti modi per farlo, tra i più efficaci ci sono quelli che attivano modalità più trasversali e multi-funzione, come la rappresentazione grafica del pensiero, l’utilizzo di simboli e icone come elemento di connessione tra parti razionali e quelle più istintive, la triangolazione di queste due funzioni tramite il corpo.

PERDITA E INFIAMMAZIONE NEURONALE

Nello sviluppo del sistema nervoso i bambini hanno un’iper-produzione di neuroni e connessioni sinaptiche. L’evoluzione prevede che una parte di questa rete neurale sia consolidata, mentre una parte venga abbandonata. Non si tratta, come si credeva fino a qualche tempo fa, di un semplice meccanismo che mantiene quello che viene usato e abbandonato quello in eccesso. La microglia, una sostanza di sostegno e nutrimento di tutto il nostro sistema nervoso (che svolge anche un ruolo centrale a livello immunitario), svolge un ruolo fondamentale in questo processo di mantenimento o “sfoltimento” del nostro sistema nervoso.
Quando un bambino si trova ad affrontare un forte stress non controllabile e non prevedibile, la microglia non riesce a svolgere correttamente il suo lavoro e, inoltre, rilascia una gran quantità di neurotrasmettitori che generano neuro-infiammazione. Da questo punto di vista svolge un ruolo centrale l’azione sull’infiammazione che parte da quello che mangiamo e dallo stile di vita. Spesso l’alimentazione di chi ha subito traumi o grandi stress è disregolata e compensatoria, ad esempio abusando di sostanze infiammatorie come cioccolato e grassi. Invece è necessaria proprio l’azione contraria. Inoltre la microglia porta nutrimento ai neuroni, quindi deve avere sostanze che siano realmente nutrienti e non povere o con effetti collaterali.

SISTEMA DIGERENTE E IMMUNITARIOsistema digerente

La connessione tra cervello e intestino è ormai nota. Per chi volesse approfondire rimandiamo all’articolo che abbiamo dedicato a questo tema. Qui ci limitiamo a ricordare che l’intestino, noto anche come “secondo cervello” è collegato direttamente e tramite più vie al primo cervello e che il loro influenzamento è reciproco.
L’intestino svolge un ruolo centrale nel sistema immunitario e, attraverso diversi processi, ha un rapporto di reciproco influenzamento anche con le emozioni. In questo processo il microbioma intestinale svolge un ruolo centrale.
Rispetto al tema di questo articolo dobbiamo notare che il microbioma di persone che hanno vissuto eventi traumatici in infanzia, ma non solo, risulta molto alterato e in condizioni assolutamente non fisiologiche.
Queste condizioni portano infiammazione di tutto l’organismo, che a sua volta sostiene altre problematiche sia a livello di struttura che di funzioni. In questo caso è necessario agire direttamente sull’alimentazione, ma anche sullo stile di vita (orari, sonno, ecc.), sulla flora batterica in modo mirato e sul sistema linfatico e le sue funzioni di eliminazione tossine e supporto al sistema immunitario. Un lavoro in sinergia tra alimentazioni ed emozioni amplifica l’effetto a entrambi i livelli e crea la possibilità di agire in modo diretto su alcune risposte emotive primitive che sono fortemente collegate sia con la sopravvivenza che con il piacere.

epigeneticaEPIGENETICA

L’epigenetica ci insegna che a fare la differenza non è solo il patrimonio genetico di una persona, ma il modo in cui “si esprime”. Si tratta del processo attraverso cui l’informazione contenuta in un gene – costituita di DNA – viene convertita in una macromolecola funzionale, che tipicamente è una proteina.
Questo può modificare significativamente ogni ambito della nostra vita, dai processi digestivi al tipo di cute che abbiamo, dalle reazioni emotive al modo di pensare fino al sistema immunitario, solo per fare qualche esempio. Si tratta di un processo piuttosto complesso, ma possiamo semplificarlo, giusto per rendere l’idea in questo modo: in caso di stress forti e prolungati un gruppo metilico si attacca ai geni coinvolti nella regolazione della risposta di stress, impedendogli di fare il loro lavoro correttamente. Dal momento che la funzione di questi geni è alterata, la risposta di stress rimane attiva ed elevata non riesce a tornare in fisiologia. 
Diventa così più chiaro come mai alcune persone presentano delle reazioni smisurate rispetto allo stimolo di partenza: una frase poco gentile del barista fa scoppiare in lacrime, una persona che ci taglia la strada in automobile fa arrabbiare in modo intenso e crea uno stato d’animo che dura troppo a lungo, ecc.
Questa chiave di lettura rappresenta un’importante nuova prospettiva rispetto alle tipiche interpretazioni precedenti. Infatti in passato si consideravano le iper-reazioni agli stimoli come modi di rivivere il vecchio evento traumatico nelle esperienze presenti, oppure come dinamiche di proiezioni mentali o identificazioni tra chi taglia la strada oggi e la persona che aveva causato il trauma e così via. Queste chiavi di lettura rimangono valide e da esplorare di caso in caso, ma oggi è importante considerare anche l’espressione genica modificata e trovare modalità dirette per regolarla, parallelamente al lavoro psicologico, relazionale ed emotivo.
Questa iperattivazione continua porta il nostro organismo in stato di infiammazione, che a sua volta aumenta il rischio di malattie autoimmuni, cancro, depressione e altre problematiche. Si tratta di un rapporto circolare, in cui molti dei fattori possono essere sia causa che conseguenza. Una tristezza prolungata può alterare il funzionamento neurobiologico, ma anche esserne la conseguenza.
Ci possono essere una catena di effetti: un’alimentazione scorretta ha effetti infiammatori e questo può modificare direttamente nel breve l’espressione delle emozioni e, alla lunga, modificare l’espressione genica che, a sua volta, modificherà l’espressione delle emozioni.
Queste risposte emotive disfunzionali indotte dalla variazione epigenetica, a loro volta, possono alterare i nostri processi digestivi e metabolici, in grado di alterare la valutazione cognitiva che innesca una risposta emotiva e dovrebbe modularla… e così via. Per questo motivo, ancora una volta, ribadiamo come sia fondamentale agire sempre a più livelli e con differenti modalità.

3 aprile 2020

Ansia anticipatoria

"E se domani lui mi lasciasse?" "E se perdessi il lavoro?" "E se domani non passo l’esame?" " E se non arrivo in tempo?" Ecco alcune domande, reiterate e angoscianti tipiche di chi soffre di una forma d’ansia fra le più fastidiose: l’ansia anticipatoria. Chi ne è vittima vive proiettato costantemente nel futuro e non riesce a godere mai del momento presente con armonia: ci sarà sempre una preoccupazione a rendere agitate le sue giornate. Due sono i fattori che entrano sempre in gioco quando parliamo di ansia anticipatoria:
  • un'allerta costante
  • un senso dell’attesa distorto

L'ansia ha una base biologica: si chiama... paura!

L'allerta costante deriva da un fattore evolutivo: sin dagli albori della nostra comparsa sulla Terra, siamo stati “programmati dalla natura” a essere costantemente vigili, vista la quantità di pericoli che gli uomini, per centinaia di migliaia di anni, hanno dovuto affrontare ogni giorno. Vista così, l’ansia anticipatoria sembra assomigliare a una forma di difesa "di specie", ma in realtà quella che proviamo oggi ha ben poco a che vedere con la paura che attanagliava i nostri antenati. Loro erano alle prese con un mondo selvaggio e ostile, noi viviamo esistenze incomparabilmente più sicure, anche se non ci facciamo caso.

L'ansia anticipatoria è un problema di controllo

L’ansia anticipatoria contemporanea è sostanzialmente un fatto mentale, una forma ipertrofica di controllo tipica del mondo moderno. Chi ne soffre vorrebbe avere costantemente in mano ogni aspetto della sua vita, ma con gli eventi futuri è impossibile e così si crea la distorsione del senso dell’attesa di cui abbiamo accennato qualche riga sopra. Del resto, anche da un punto di vista collettivo, attendere non fa più parte del quotidiano: un tram che tarda 4 minuti diventa una specie di dramma, al ristorante tutto deve arrivare in tempi record, la fila alle poste non avanza mai e gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

Il perduto senso dell'attesa

Eppure l'esperienza dell’attesa di qualcosa che deve arrivare fa parte della nostra storia da sempre; non a caso, tutte le religioni assegnano grande importanza alla capacità di attendere, dell'uomo di fede. Senza scomodare i massimi sistemi, la semplice attesa del tramonto in una sera d’estate con l’innamorato al fianco, l’attesa del Natale di quando eravamo piccoli, o dello scoccare della mezzanotte a capodanno da ragazzi, sono esempi che dovrebbero ricordarci quanto l'attesa abbia un valore intrinseco per le vite di tutti, "preparazione simbolica" a quel che accadrà dopo. Purtroppo, una società ipercinetica come la nostra è un terreno fertile per l'insorgere di una patologia come l'ansia anticipatoria.

Ansia anticipatoria: i sintomi

Spesso, per chi soffre di ansia anticipatoria, la vita si trasforma in una tortura autoinflitta: mani sudate, battito accelerato del cuore, e tremori sono fra i sintomi più diffusi, ma ce ne sono altri, sia mentali che fisici. Ecco i principali:
  • irritabilità e fretta costanti
  • visione pessimistica del futuro
  • umore ballerino
  • senso di colpa
  • senso di impotenza
  • tristezza
  • preoccupazione costante
  • stanchezza costante
  • disturbi allo stomaco
  • cefalee frequenti
  • insonnia
  • stanchezza cronica

Come combattere l'ansia anticipatoria

Come tutte le forme d'ansia, anche questa va affrontata con le "armi giuste", che sono quelle della cedevolezza, della resa e dell'accoglimento del sintomo. L'ansia, che in superficie ha sempre a che vedere con un bisogno supposto ed erroneo di controllo, nel profondo è un preciso richiamo dell'anima, che ci vuole avvisare che stiamo vivendo come in due universi paralleli: il corpo nel presente, la mente nel futuro. Così non va: recuperare l'unità psicosomatica è ciò che vuole il nostro mondo interno, l'ansia anticipatoria è solo l'aspetto esteriore, sintomatico di questa necessità profonda.
Per superarla ci possono utilizzare alcune tecniche psicologiche di tipo immaginativo o intraprendere dei percorsi volti a raggiungere uno stato di consapevolezza cedevole: a volte ci si può riuscire da soli, a volte serve un percorso di psicoterapia, mentre il trattamento con gli psicofarmaci, specie gli ansiolitici ma anche gli antidepressivi, è opportuno solo nelle rare forme invalidanti e dietro prescrizione medica, sempre a fianco di una psicoterapia e sospeso il prima possibile. Un fatto è certo: quanto più una persona è in grado di accogliere con cedevolezza il disagio, tanto più velocemente se ne andrà. Una regola universale alla quale non sfugge l'ansia anticipatoria.