4 giugno 2018

Le droghe legali

Una storia che dura da vent’anni, tra benzodiazepine e stabilizzanti dell’umore, tra il timore degli effetti collaterali e quello di doverli prendere a vita. Sara è un nome di fantasia ma la sua testimonianza è reale.



“Il mio problema? Ordinarli sempre per tempo, per non scoprire la sera di avere una compressa mancante e dover correre alla farmacia notturna, magari con la ricetta scaduta, e cercare di convincere il farmacista di turno a non essere troppo fiscale.
Troppa è la paura di passare una notte in bianco o comunque difficile, perché ne basta una per rovinare un equilibrio costruito faticosamente nel tempo.
Gli psicofarmaci sono come la droga: non puoi smettere di prenderli all’improvviso o saltare un giro, perché ti arrivano subito ansia, palpitazioni, agitazione, mentre l’umore precipita verso il basso. E mentre è facilissimo iniziare a prenderli, nessuno ti aiuta veramente a smettere quando non ne hai più bisogno. Anche gli psichiatri, su questo fronte, non sono preparati.

Non si spiegherebbe altrimenti che la maggior parte di chi inizia ad assumere psicofarmaci – altro che le poche settimane indicate dal bugiardino – continui per dieci, venti o trent’anni, proprio come me.
 
Benzodiazepine: quell’euforia di cui non si può più fare a meno

Mi chiamo Sara, ho trentotto anni e un figlio. Ricordo esattamente il giorno in cui presi la mia prima psico-pillola. Avevo vent’anni, ero in vacanza dai miei nonni e mentre camminavo per tornare a casa la vista mi si annebbiò, il cuore cominciò a pulsare velocissimo, mentre un’angoscia senza fine si impadroniva di me. Mi visitò una psichiatra amica di famiglia, e lì cominciò la mia prima dipendenza: quella dalle benzodiazepine, in apparenza innocue, capaci di far sparire subito l’ansia e dare un leggero senso di euforia. Ma con un difetto: è impossibile liberarsene, diventano una specie di compagno insostituibile da prendere al bisogno. Come facevo io, non appena uscendo di casa venivo colta sistematicamente da un attacco di panico, che spesso mi costringeva a rientrare precipitosamente a casa. E per un po’, cioè alcuni anni, sono andata avanti così, con le mie boccette sempre in borsa, e le gocce prese di giorno e di sera.
 
Quando anche la psicoterapia non funziona
 
Nel frattempo, visto che tutti lo consigliavano, cominciai una psicoterapia freudiana, tre volte a settimana per oltre dieci anni. Mi arrampicavo a piedi al settimo piano di un palazzo – soffro di claustrofobia – per stendermi ai piedi di un’anziana psicoanalista che spesso, tra l’altro, si addormentava alle mie spalle. Ma la lunghissima analisi si dimostrò un mezzo fallimento, tanto che quando finì caddi in uno stato di angoscia acutissima. Per tutta risposta, la psicoanalista mi disse che non poteva fare nulla per me e mi inviò da una psichiatra. Quest’ultima mi dette uno stabilizzatore dell’umore, poi me lo tolse – e infatti passai un’estate di insonnia totale che cercavo di arginare con ipnotici dannosi e inutili – infine mi affibbiò un antidepressivo che mi fece precipitare in uno stato di angoscia insostenibile per svariati mesi. Fui costretta a smettere di lavorare, passavo le giornate aspettando un po’ di sollievo la sera, non dormivo più. Non avevo ricevuto una diagnosi chiara, d’altronde in psichiatria ogni medico ti dice una cosa diversa,  ma soprattutto nessuno mi aveva spiegato gli effetti collaterali dei farmaci – quale psichiatra lo fa? – né aiutato nel momento del crollo.


La malattia mentale non si misura con la Tac 

Quando stai male credi che sia colpa della tua malattia, ogni peggioramento è interpretato da te e spesso anche da chi ti cura come una “ricaduta”, eppure c’è ormai un’ampia letteratura che spiega come la malattia mentale non si possa certo misurare con una tac o altri esami, come nel caso di altre patologie, per cui non c’è nulla di organico. L’altra convinzione molto diffusa è quella secondo cui gli psicofarmaci ripristinerebbero un eventuale squilibrio del cervello. Ma anche qui crescono gli studiosi che raccontano una realtà diversa: e cioè il fatto che siano in realtà proprio gli psicofarmaci, che dovrebbero essere usati solo in caso di emergenze estreme, ad alterare un equilibrio neurologico, alterazione che poi gli psichiatri cercano di arginare con ulteriori psicofarmaci, in una catena senza fine. Il guaio è che mentre le medicine quasi sempre non guariscono, perché di fatto agiscono solo sui sintomi, smettere può far stare anche peggio. E allora anche il paziente non vuole smettere, al massimo chiede un cambio di terapia. O comincia a passare da uno psichiatra all’altro.


Psicofarmaci a vita? 

Così  infatti feci, e almeno trovai una persona che non mi diceva con tono brusco e paternalistico che l’angoscia fa parte della vita, ma mi diede una diagnosi più precisa – disturbo bipolare  – e cambiò subito i farmaci: stabilizzatori dell’umore, a partire dal litio. Poi questo psichiatra morì e passai a un’altra dottoressa, che seguiva la stessa scuola. Niente antidepressivi, sempre stabilizzatori dell’umore, antipsicotici – che oggi vengono usati per sedare l’ansia anche in chi psicotico non è –  un po’ di benzodiazepine la sera. Ripresi in mano la mia vita, e tutto, lavoro e famiglia, sembrava procedere per il meglio finché non rimasi incinta. Perché nonostante fossero passati anni dal miglioramento, io i farmaci non li avevo smessi. La psichiatra preferiva che li continuassi, anzi sosteneva che il litio lo dovessi prendere a vita, io pure avevo terrore di interromperli, e così, tra una ricetta e l’altra, avevo continuato a prenderli proprio come fossero insulina per il diabete. E non terapie momentanee, come dovrebbero invece essere.


Psicofarmaci e gravidanza 

La gravidanza per chi soffre di una malattia cronica è un momento difficile. Per chi prende psicofarmaci, pure. Oggi in realtà gli studi hanno dimostrato che moltissime molecole possono essere assunte senza problemi. Ma altre sono decisamente dannose per il feto, a partire dal litio, che dovetti scalare bruscamente. Inizialmente sembrò andare tutto bene, poi lentamente peggiorai e passai una gravidanza terribile, tra insonnia estrema, angoscia acuta, desiderio di abortire per uscire da quello stato di dolore senza limiti per il quale, ancora una volta, non c’era un nome. Stavo così male che progressivamente mi fu decuplicato il dosaggio dei farmaci che potevo assumere senza danni per il bambino, ma prima del parto si pose il problema dell’allattamento. Le benzodiazepine si possono prendere durante la gravidanza, ma non nell’allattamento. Toglierle mi provocò una ricaduta ancora più grave, fu un parto in cui ero del tutto assente e non collaboravo per nulla, e poche ore dopo stavo così male che mi ridettero tutti farmaci più le pasticche per togliere il latte. Una sconfitta e un dolore enorme per me che avevo deciso di allattare e a lungo. Ma paradossalmente dopo poche ore ero già in piedi e stavo bene.


L’effetto rebound: peggio di un cocainomane senza droga 

Col senno di poi, infatti, penso che quel malessere senza nome in gravidanza fu certamente causato da un mix di fattori, tra cui fondamentale, però, è stata la sospensione dei farmaci. Si chiama effetto rebound, appunto, può essere a breve o medio termine, ma è comunque spaventoso, esattamente come la sospensione di cocaina o altra droga. Oggi mi piacerebbe avere un secondo figlio, ma i farmaci non li ho smessi, sto ancora assumendo le dosi della gravidanza. Tra l’altro, poco tempo fa ho letto con attenzione i bugiardini delle medicine che prendo. A fronte di indicazioni terapeutiche per una vaga “tristezza e depressione” c’è una quantità di effetti collaterali, non rari ma frequenti, che dovrebbero frenare chiunque abbia intenzioni di prenderli:  aumento di pensieri suicidi, aumento di peso, movimenti muscolari anomali, gonfiore, incubi, vomito, dispnea, aumento della prolattina, problemi cardiaci gravi e anche fatali.
Solo per fare alcuni esempi.  Certo, faccio frequenti analisi del sangue, controlli al fegato e al cuore anche tramite ecografia, esami della tiroide, e così via. Ma l’unico desiderio è poterli smettere, anzi alzarmi un giorno e buttare tutte le confezioni nel cestino. Purtroppo so che non posso farlo perché starei malissimo. La psichiatra mi sta facendo scalare l’antipsicotico, ma con una diminuzione così lenta che impiegherò un anno a toglierlo, se tutto va bene. Eppure così è: o diminuisci gradualmente o rischi la ricomparsa di tutti i sintomi.


Patente e burocrazia 

Ormai sono assuefatta anche alla burocrazia necessaria per averli. Per alcuni farmaci, quelli costosi per il Sistema sanitario nazionale (anche cento euro a scatola) ci vuole un piano terapeutico, fatto da un Centro di salute mentale pubblico anche se tu sei seguito da uno specialista d’eccellenza privato. Devi andare lì con il fogliettino del tuo psichiatra, e sperare che lo psichiatra del pubblico non si metta contro contestando la terapia, perché a quel punto è veramente difficile capire che fare. Con il piano terapeutico poi vai dal tuo medico di base, confidando che anche lui non dica il suo parere e ti faccia le ricette senza problemi. Nel frattempo però, al rinnovo della patente, ho deciso di non dichiarare l’assunzione di psicofarmaci, come invece avrei dovuto. A quanto ho capito, lo fanno tutti, e il motivo è che altrimenti finisci davanti a una Commissione medica che può toglierti la patente o importi un assurdo e costoso rinnovo annuale. Che poi se gli psicofarmaci curassero veramente la patente andrebbe tolta a chi soffre di ansia o depressione e non li prende. Invece nel caso della guida sono assimilati agli stupefacenti. Un’altra dimostrazione del fatto che non sono farmaci che curano. Col senno di poi, al mio primo attacco di panico avrei fatto meglio a prendere cannabis e marijuana, cosa che non ho mai fatto. Sarebbe stato meno dannoso. E, soprattutto, sarebbe stato più facile smettere.

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