30 gennaio 2020

Le cellule staminali

COSA SONO LE CELLULE STAMINALI?

Molte volte abbiamo sentito parlare di cellule staminali, spesso soggette a forti dibattiti riguardanti la loro natura ed il loro impiego in terapia. Ma cosa sono esattamente le cellule staminali?

Quanti di noi da piccoli erano davvero indecisi sulle scelte da intraprendere per il proprio futuro? Quanti invece anche adesso lo sono? 😅

Come si può capire dalla vignetta, una cellula staminale non è altro che una piccola cellula che non sa cosa fare da grande. O meglio lo sa, ma non è ancora “pronta” per intraprendere determinati compiti di uno specifico “mestiere”, anche se ha delle grandi potenzialità per poterlo fare.
In altre parole, le staminali sono cellule “BAMBINE” in grado originare tutti i tessuti e gli organi del nostro corpo, che saranno così costituiti da cellule ADULTE, ormai incapaci invece di apprendere altro mestiere all’infuori del loro. Per conoscere meglio le staminali dunque sarebbe utile dare uno sguardo alla nostra origine.

Quando si ha la fecondazione, da parte dello spermatozoo, della cellula uovo femminile, si forma la prima e unica cellula che rappresenta l’origine di tutto ciò che siamo: lo ZIGOTE.
Questa grossa cellula ha la capacità di dividersi frammentandosi, dando origine quindi a più cellule che sono copie esatte di se stessa, ma più piccole: i BLASTOMERI.

Quando dopo circa 3 giorni della fecondazione i blastomeri arrivano ad essere 16 o quasi, si ha la formazione della MORULA, un aggregato di cellule che si origina nei primi stadi dello sviluppo embrionale, durante la segmentazione dello zigote. Il nome deriva dalla forma a grappolo di questo aggregato, che somiglia, appunto, a una piccola mora. Possiamo ammirarne la tipica forma nella foto al microscopio elettronico riportata nell’immagine del post, dove la morula giace sulla punta di un ago (esatto, quella cosa siamo noi dopo tre giorni di vita intrauterina!).

Successivamente la morula diventa come un guscio contenente in parte uno spazio vuoto e in parte un ammasso cellulare. Il guscio costituisce il TROFOBLASTO che darà vita alla placenta, l’ammasso cellulare invece è dato da STAMINALI EMBRIONALI che daranno origine a tutti i tessuti dell’organismo.

Tornando a noi, non tutte le cellule staminali riescono a dare vita a tutti i tipi cellulari che compongono un organismo. Per questo motivo esistono diverse POTENZIALITÀ DIFFERENZIATIVE delle staminali, cioè diverse capacità di generare molti o pochi tipi cellulari differenti. Distinguiamo quindi 4 modelli di cellule staminali: totipotenti, pluripotenti, multipotenti e unipotenti.

Fino allo stadio di morula tutte le cellule, ancora blastomeri, sono vere e proprie staminali TOTIPOTENTI: questo significa che ogni blastomero è in grado di dare origine non solo a tutte le cellule che costituiranno l’individuo, ma anche a quelle che formeranno gli organi accessori necessari alla gestazione del bambino nel grembo materno, come ad esempio la placenta. Le PLURIPOTENTI sono quelle della massa cellulare interna incapaci di dar vita alle cellule del trofoblasto. Durante la vita invece ci accompagnano quelle MULTIPOTENTI, come ad esempio le staminali ematopoietiche che danno vita a tutte le cellule del sangue, e quelle UNIPOTENTI, come le staminali della pelle che producono in continuazione un solo tipo di cellula, il cheratinocita.

In molti tessuti infatti, durante la vita dell'individuo, servono come una sorta di sistema di riparazione interna, dividendosi essenzialmente senza limite per ricostituire altre cellule finché l’individuo è ancora vivo. Questa è una delle caratteristiche che le rendono interessanti dal punto di vista terapeutico soprattutto nel campo della medicina rigenerativa, anche se la loro specializzazione resta un processo molto delicato e sensibile a condizioni genetiche, nutritive e ambientali.

Qualora foste interessati ad approfondire l'argomento, fatecelo sapere nei commenti, Missione Scienza è a vostra disposizione.

[Mirko]

Grafica: Mirko Baglivo Design

Fonti:

https://stemcells.nih.gov/info/basics/1.htm
Embriologia umana. Morfogenesi, processi molecolari, aspetti clinici. De Felici. PICCIN editore.
https://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale

Morula photo credits: Dr Yorgos Nikas

Cartoon Credits: http://biocomicals.blogspot.it/2011/06/when-i-was-little-stem-cell.html - Joan Stabila

24 gennaio 2020

Inventarsi creativi

Il mito del “genio” che nasce tale e che nell’arte, nella scienza o nella tecnica raccoglie successi per folgorazione è smentito dalle biografie di molti grandi ingegni. Ove si nota come il requisito primario sia piuttosto la perseveranza nello studio e nelle sperimentazioni.
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Uno degli argomenti più affascinanti degli studi psicologici è senza dubbio quello relativo alla creatività, ovvero la capacità di inventare andando oltre i limiti della conoscenza ordinaria. Prerogativa, questa, delle persone “geniali”, il più delle volte considerata un dono naturale impossibile da costruire, per cui geni si nasce e non si diventa.
Ma se questo può essere vero per Archimede o Leonardo da Vinci, così non è per molti altri grandi inventori,scienziati che hanno coltivato i loro talenti non geniali conducendoli, tramite un costante esercizio, oltre i limiti della normalità intellettiva e, grazie a ciò, sono stati in grado di realizzare grandi opere, scoperte straordinarie e invenzioni meravigliose.
Per esempio, Einstein effettuò le sue geniali teorie attraverso laboriosi calcoli e non per una folgorante intuizione, così come Fleming scoprì la penicillina per caso durante le sue prolungate ricerche, o ancora Edisonriuscì a realizzare la lampadina dopo più di duemila esperimenti falliti.
Pertanto, l’atto di genio può essere, al di là del pensare basato sul senso comune, il frutto di un laborioso e perseverante esercizio di pensieri e azioni che elevano al di là dei limiti dell’intelligenza normale e della limitata creatività comune.
Di fatto, lo studio sistematico di come i grandi innovatori hanno creato le loro opere nelle scienze, nell’arte o nella tecnologia conduce a svelare alcunericorrenti caratteristiche della creatività e dell’inventività.
La prima, come indicava William James, è «la capacità di percepire le cose da prospettive non ordinarie», ovvero il saper guardare la realtà da punti di vista differenti rispetto a quelli comuni, sfidando il pensare convenzionale e le ortodossie teoriche. Einstein sosteneva: «Ci vuole un nuovo modo di pensare, per risolvere i problemi creati dal vecchio modo di pensare».
La seconda caratteristica è la tenacia nel non desistere dalla ricerca continua e dalle sperimentazioni concrete orientate al miglioramento sia delle cose che di se stessi. Quando un irriverente giornalista chiese a Edison se fosse vero che egli aveva fallito oltre duemila esperimenti prima di effettuare quello, riuscito, che dette il via alla luce artificiale, egli replicò che in realtà aveva avuto successo nell’incorrere in duemila fallimenti che lo avevano condotto poi ad approntare la lampadina. Insomma, l’errore ricercato come paradossale fonte di scoperta di qualcosa che il pensiero e l’agire lineari non permettono, poiché limitati entro i loro schemi.
Terza prerogativa del cosiddetto genio è la costante attenzione ai particolari anche apparentemente irrilevanti e alle interazioni fra le cose e la loro dinamica. Una curiosità educata a cercare le particolarità, come la regolarità, dei fenomeni sotto osservazione. Fleming, accusato di avere scoperto la penicillina per caso, e dunque di essere stato solo fortunato, rispose in modo lapidario: «Il caso aiuta solo la mente preparata».
Di fatto, solo chi ha un’adeguata preparazione riesce a cogliere quel qualcosa che il soggetto comune non vede. Pertanto, creativi non solo si nasce ma lo si diventa anche, coltivando costantemente, e per questo elevando di continuo, quelle capacità rilevate come tratto comune dei grandi creativi e inventori.
Del resto, già 2500 anni or sono Protagora, il grande sofista, affermava che il «Maestro non è altro che la sintesi tra predisposizione naturale ed esercizio costante», mettendo in risalto il fatto che puoi nascere anche molto dotato ma, senza stimoli appropriati e un ricorrente esercizio applicativo, le doti rimarranno dormienti. Per questo ciò che davvero fa la differenza è la sperimentazione indefessa, dato che i nostri talenti possono essere esercitati solo per mezzo di quella. Se non corriamo il rischio di metterci alla prova, possiamo vivere certo più sereni e tranquilli, evitandoci possibili frustrazioni e delusioni delle nostre aspettative, ma, così facendo, non avremo modo né di conoscere le nostre qualità effettive né di migliorare quelle che ci attribuiamo.
Oscar Wilde scrive: «L’unico modo per conoscere una realtà è farla camminare sulla corda tesa in maniera funambolica». Senza l’esposizione al rischio dell’insuccesso non può esservi successo. Quindi, ultima, non sottovalutabile notazione per la realizzazione di quanto detto fin qui, non ci sono scorciatoie, quelle che troppo spesso l’uomo moderno è incline a cercare: se vuoi ottenere tanto, devi essere disposto a dare altrettanto, tenendo a mente che solo chi si arrende è sicuramente sconfitto.
A questo riguardo ritengo molto illuminanti le parole di Friedrich Nietzsche: «La ricetta per diventare un buon novelliere è facile a dirsi, ma l’esecuzione presuppone qualità su cui si suol passar sopra quando si dice: “io non ho abbastanza talento”. Si provi a fare cento e più abbozzi di novelle, ciascuno non più lungo di due pagine, ma di tale chiarezza che ogni parola sia in esso necessaria; si scrivano ogni giorno aneddoti, finché non si impari a trovare la loro forma più pregnante, più efficace; si sia instancabili nel raccogliere e dipingere tipi e caratteri umani; si racconti soprattutto il più spesso possibile e si ascolti raccontare, con occhio e orecchio attenti all’effetto prodotto sugli altri presenti, si viaggi come un pittore paesaggista e disegnatore di costumi... si rifletta infine sui motivi delle azioni umane, non si disdegni alcuna indicazione per istruirsi in questo campo e si faccia giorno e notte collezione di cose siffatte. In questa molteplice esercitazione si lasci passare una decina di anni: ciò che poi viene creato in laboratorio, può uscire anche alla luce del sole».



15 gennaio 2020

Il disturbo borderline

Il disturbo borderline di personalità Ã¨ da sempre un "problema" per la psicologia. Anzitutto, per la sua difficile collocazione diagnostica: il termine borderline in inglese significa linea di confine e originariamente il suo utilizzo in ambito clinico indicava quei soggetti che non potevano rientrare nelle categorie classiche di nevrosi e psicosi, possedendo caratteristiche di entrambe le due grandi generalizzazioni psichiatriche risalenti agli albori della psicoanalisi. Oggi le principali linee guida internazionali tendono invece a considerarlo un disturbo a sé, con caratteristiche proprie, superando implicitamente il concetto di patologia di confine che aveva in principio caratterizzato l’approccio ai soggetti borderline.

Chi ne soffre ha un'emotività incontrollabile...

Se è arduo collocare in modo preciso questa patologia all’interno dell’ampio spettro dei disturbi mentali, è più agevole definire la caratteristica principale del disturbo borderline di personalitàun disagio grave della relazione e dell’emotività, derivante da un rapporto molto difficile e controverso con se stessi. Ilsoggetto borderline vive il quotidiano con livelli emotivi eccessivi, a volte esplosivi e comunque estremamente variabili e con un perenne senso di precarietà riguardo la sua identità personale: chi sono, cosa voglio, perché mi capitano certe cose…

...che rende i rapporti sociali difficili

In conseguenza di questa instabilità emotiva, i soggetti borderline hanno grosse difficoltà a stabilire rapporti sociali di amicizia e affetto duraturi e stabili nel tempo. Questa caratteristica fa si che le persone affette da disturbo di personalità borderline abbiano un impatto considerevole nelle vite delle persone a loro vicine, in particolar modo i parenti stretti, anche perché l’età di esordio del disturbo è spesso l’adolescenza. La maggior parte delle scuole psicologiche ritiene che alla base di questo disturbo vi sia un fattore di ereditarietà (studi sui gemelli tenderebbero a confermarlo), e che vi sia molto spesso un’associazione con eventi traumatici molto gravi subiti dai soggetti durante l’infanzia, in primis abusi sessuali o fisici. Tuttavia, esistono soggetti borderline che non rientrano in queste categorie.

Le mezze misure non esistono

Una tendenza tipica di chi ne soffre è un’estrema polarizzazione e oscillazione del giudizio, coerente con la teoria junghiana della compresenza nella mente umana di fattori opposti psichici, che nei borderline sembrano del tutto scissi fra loro. Per soggetti borderline esistono solo il “bianco e il “nero”, il buono e il cattivo, l’amore o l’odio, senza vie di mezzo. Dietro questa dicotomia non c’è un processo razionale, ma una fortissima passionalità (di tipo infantile, dunque estrema), che prorompe in un uso automatico di meccanismi arcaici di difesa da ciò che i borderline temono di più: l’abbandono, esperienza inaccettabile che li fa piombare nell’angoscia e nella disistima, alla base dei comportamenti autolesivi e (auto)distruttivi tipici della patologia.

Disturbo borderline di personalità: diagnosi e trattamento

Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali DSM-5, grazie alla sua metodologia di tipo dimensionale offre la possibilità di stabilire la “gravità” del disturbo borderline e delle aree specifiche dalle quali è caratterizzato.
Il Disturbo Borderline di Personalità sarà determinato quindi da un criterio principale definito da duen fattori:
  • Compromissione del funzionamento del sé, ovvero da un’immagine di sé instabile, sentimenti di vuoto/solitudine, instabilità negli scopi e assenza di progettualità;
  • Compromissione del funzionamento interpersonale caratterizzato da una pervasiva preoccupazione di essere rifiutati e abbandonati e allo stesso tempo dal timore che l’eccessiva intimità possa essere pericolosa.
Il secondo criterio viene preso in considerazione solo se il paziente presente un quadro clinico che soddisfa il primo e concerne i seguenti aspetti:
  • Affettività negativa, ovvero la labilità emotiva unita a sintomatologia ansiosa e depressiva;
  • Disinibizione, espressa con la tendenza all’impulsività e con i comportamenti rischiosi;
  • Antagonismo, ovvero la tendenza pervasiva all’ostilità.
Questi tratti devono essere stabili nel tempo, non imputabili a caratteristiche socio-culturali e producono i seguenti comportamenti tipici:
1) sforzi continui di evitare gli abbandoni, reali o immaginari

2) relazioni instabili e intense, alternanza fra idealizzazione e demonizzazione dell'altro

3) immagine e percezione di sé instabili e tendenzialmente negative
4) impulsività in almeno due aree potenzialmente dannose: promiscuità sessuale, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate compulsive, rissosità.

5) ricorrenti minacce di comportamenti suicidari, gesti autolesivi dimostrativi. Rischio suicidio più elevato della media degli altri disturbi psichici.
6) episodica e intensa ansia, che di solito dura poche ore, e soltanto raramente più di pochi giorni.

7) sentimenti cronici di vuoto interiore.

8) rabbia immotivata e frequenti accessi di ira.

9) ideazione paranoide, o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress.

Trattamento del disturbo borderline: linee guida principali

Il trattamento del disturbo borderline di personalità prevede quasi di necessità una psicoterapia strutturata di medio/lungo periodo, nei casi più gravi con il supporto della psicofarmacologia. L'aspetto più importante da considerare è quello preventivo, dal momento che non esistono scuole o modelli psicoterapeutici d'elezione nel trattamento di simili disturbi. Prima viene eseguita la diagnosi, prima sarà possibile indirizzare i soggetti sofferenti alle cure più appropriate, tenendo presente che è la relazione terapeutica l'aspetto ad un tempo più importante e più problematico nei confronti dei borderline.
Nel setting terapeutico infatti si attivano in modo profondo le dinamiche relazionali del paziente, che possono portarlo a idealizzare il terapeuta (fino a forme affini all'innamoramento), ma anche a rapidissime svalutazioni dello stesso e conseguente interruzione del trattamento. Per mantenere la continuità necessaria alle cure è quindi molto importante che il terapeuta abbia la solidità e l'esperienza necessarie per contenere gli aspetti estremi del soggetto evitando di cadere nella "trappola affettiva" che il borderline mette sempre in campo, diviso com'è fra un estremo bisogno d'amore e il terrore di perderlo.

12 gennaio 2020

Cambiare il proprio modo di pensare

Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa.
Si avvicina un poliziotto e gli chiede che cosa abbia perduto.
"La mia chiave," risponde l’uomo, ed entrambi si mettono a cercarla.
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Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto chiede all’uomo ubriaco se è proprio sicuro di averla persa lì.
L’altro risponde:
"No, non l'ho persa qui, ma là dietro. Solo che là è troppo buio."
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Questa bizzarra storia è conosciuta come "Il Paradosso del Lampione" ed è citata dallo psicologo Paul Watzlawick nel suo celebre libro “Istruzioni per rendersi infelici”.
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Quando dobbiamo affrontare i problemi di tutti i giorni siamo prigionieri dei "lampioni" che abbiamo nella nostra mente.
Vuol dire che tendiamo a cercare le soluzioni ai nuovi problemi sempre nello stesso modo e mai oltre la zona illuminata dal nostro lampione, perché non osiamo fare un passo verso il buio, cioè verso terreni inesplorati della nostra mente, perché è più comodo.
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Tuttavia, è così che alcune persone restano "incastrate" nella loro vita per anni a causa degli stessi problemi irrisolti.
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La verità è che i problemi non sono mai uguali tra loro e spesso basta solamente cambiare il nostro modo di pensare per trovare la giusta soluzione a qualsiasi cosa.
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Per dimostrarvelo, abbiamo organizzato un laboratorio al Festival Psicologia 2018 che si rivelerà molto utile per tutte quelle persone che ritengono che la loro vita si sia "incastrata" a causa di alcuni problemi apparentemente insormontabili.
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Presso uno dei 20 stand del Festival, i visitatori potranno sottoporsi al test de "I Tre Cerchi d'Influenza", sotto la guida di esperti psicologi.
Questo strumento ha come obiettivo quello di riuscire ad individuare i propri problemi osservandoli da un'altra prospettiva e di definire con esattezza almeno un obiettivo di miglioramento della propria vita e come raggiungerlo.
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[ COME FUNZIONA? ]
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Lo psicologo chiede alla persona che decide di sottoporsi al test di raccontare le difficoltà della propria vita, o almeno quelle che lui percepisce come tali.
Queste difficoltà possono riguardare qualsiasi cosa: problemi al lavoro, difficoltà nelle relazioni con il partner, incomprensioni con gli amici, ecc.
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Successivamente, lo psicologo e il partecipante ragionano insieme per individuare con esattezza i problemi e soprattutto le aree di influenza su cui lavorare, per poi stabilire dei precisi obiettivi da seguire.
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In poche parole, chi è in cerca d'ispirazione o di una strategia vincente, troverà l'aiuto di un esperto pronto a confrontarsi con lui.
Grazie alla Psicologia è possibile acquisire il coraggio di cercare la chiave anche dove non arriva la luce del lampione.
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Ci vediamo al Festival Psicologia 2018 per sperimentare insieme tanti altri test e laboratori psicologici 😉
8 - 9 Giugno (10:00 - 22:00) presso il Teatro India (Roma).  Ingresso libero e gratuito.

6 gennaio 2020

Si raccoglie ciò che si semina

Raccontato da chi ha festeggiato molto innamorato le sue nozze d’oro.
Di recente sono rimasto vedovo dopo poco più di cinquant’anni di matrimonio. Non sono triste ma grato, e non penso di cadere nellanostalgia.
Mia moglie vive in un’altra dimensione con una realtà più bella di quella che i miei sensi apprezzano oggi, e aspetto solo il felice incontro con lei dopo qualche altro breve e dolce anno qui sulla Terra accanto ai miei cari.
Mia nipote, che recentemente si è fidanzata, è venuta a trovarmi in questi giorni, e il suo motto in queste occasioni è “Caffè, biscotti e una bella chiacchierata”.
Fin da bambina ama fare domande: “Nonno, perché questo è così? E perché quest’altro è in quest’altro modo?”
Questa volta mi ha detto molto seriamente: “Nonno, raccontami di quando tu e la nonna eravate fidanzati”. Guardandomi intensamente ha aggiunto: “Come vi siete innamorati, e come avete mantenuto il vostro amore per tanto tempo?”.
Mi chiedeva di parlarle dell’amore vero e positivo, e ho iniziato a dirle che sua nonna ed io avevamo ovviamente dei difetti quando ci siamo conosciuti. Alcuni sono scomparsi col tempo, altri li abbiamo controllati e altri semplicemente sono sempre stati presenti nella nostra vita.
Abbiamo imparato ad amarci con tutti i nostri difetti, e anche attraverso di essi, perché ci hanno richiesto il contrappeso delle virtù dell’altro per sopportarci e aiutarci.
Le ho anche detto che le nostre caratteristiche fisiche, la nostra intelligenza e la nostra volontà si sono indebolite col tempo, ma che il nostro amore ha continuato a gettare radici sempre più profonde.
Tutto è iniziato durante il fidanzamento, quando i nostri ormoni, le emozioni, i sentimenti e le ragioni contenevano l’essenza del nostro innamoramento. È stata tuttavia la nostra decisione di interiorizzarli ad aver reso possibile l’amore vero.
Con romanticismo ma con i piedi per terra abbiamo seminato in quella tappa ciò che avremmo raccolto durante il nostro matrimonio: amore, purezza, tenerezza, lealtà e tanti altri sentimenti che ci hanno uniti intimamente con un amore per sempre.
E allora non abbiamo avuto bisogno di pensarci tanto per decidere di sposarci, perché contavamo sulla trasparenza del nostro essere personale, che ci dava la certezza che:
  • Potevamo lasciar vedere i nostri difetti e i nostri limiti, senza complessi né artifici.
  • Eravamo illimitatamente liberi.
  • Eravamo decisi ad essere l’uno il bene più grande dell’altro.
Mia nipote mi ascoltava con grande serietà quando le ho detto convinto che il fallimento di tanti matrimoni si potrebbe evitare se si apprezzasse in modo corretto il fatto che sposarsi è un atto pieno di libertà e che si basa su una conoscenza più personale che razionale.
Che una persona non si sposa con un sorriso raggiante o con una bella capigliatura, con un fisico scattante o un’intelligenza brillante, o con questo o quel temperamento… Tutte queste cose di cui la persona dispone sono soggette alla contingenza del momento. Domani chissà…
Ci si sposa con una persona, e questa non viene misurata né dal tempo né dalle circostanze, ed è per questo che l’amore personale non passa mai.
Nel fidanzamento si tratta di aguzzare l’ingegno per intuire l’essere personale unico e irripetibile dell’altro, e non solo per calibrare maggiormente gli aspetti naturali e comuni che possono avere anche tante altre persone.
Per questo prima di sposarsi è molto importante avere tempo sufficiente per conoscere meglio tutto ciò che una persona ha o di cui non dispone. È necessario conoscere la persona com’è.
Ci sono realtà molto diverse che alcuni scoprono prima, altri poco dopo e altri ancora purtroppo troppo tardi o addirittura mai.
Esistono due manifestazioni molto importanti che possono essere un indizio del fatto che il matrimonio può essere una buona opzione:
  • A livello di intelligenza e volontà: la crescita progressiva nelle virtù, soprattutto quelle che si riferiscono all’amicizia mentre i due sono fidanzati.
  • A livello personale: che entrambi permettano di conoscersi a poco a poco come le persone che sono e sono chiamate ad essere se si vive nella verità.
Nel caso in cui questo non succeda, è meglio non sposarsi.
Mia nipote ha abbozzato un sorriso. È una ragazza intelligente e ha concordato su tutto. Spero e prego Dio che abbia incontrato una persona che la merita.
È stato un pomeriggio a base di caffè, biscotti e una bella chiacchierata.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

3 gennaio 2020

Forse conoscete la nota poesia in romanesco di Trilussa, che se io mangio due polli arrosto e tu 0, per la statistica in media ne abbiamo mangiati uno a testa. Oppure la barzelletta con tre arcieri a una gara, il primo manca il bersaglio scoccando mezzo metro a sinistra, il secondo lo manca scoccando mezzo metro a destra e il terzo, uno statistico, esclama "centrato!"

Scott Adams disse che 63 statistiche su 100 sono inventate. Compresa questa.

Battute innocue, in fondo, solo per strapparsi una risata prima di tornare a lavorare e pensare a cose serie?

Proviamo a fare qualche esempio più grosso.

Un'azienda abbassa i salari del 30%, giustificandosi con la crisi economica. Dopo proteste li rialza sempre del 30%, dicendo che ha ristabilito la situazione precedente e che ci tiene ai lavoratori. La stampa loda il datore di lavoro magnanimo. Ma sono percentuali che si riferiscono a cifre differenti. Se il salario è facciamo 100€, abbassarlo del 30% lo porta a 70€. Il 30% di 70 è 21, quindi gli impiegati alla fine si ritrovano con 91€ in busta paga e devono ringraziare il direttore per la comprensione. 

Una pubblicità loda le proprietà terapeutiche di un dentifricio. Test clinici su volontari rivelano che ha ridotto le carie del 23% in meno rispetto ai prodotti di altre marche. Una noticina in piccolo scrive che i test sono stati effettuati su di un campione di 12 persone. Prima di aprire il portafoglio, siamo sicuri che il numero uscito da un campione così piccolo sia affidabile e non dovuto al caso? Lo stesso per numerosi integratori, cosmetici se non farmaci di cui vengono pubblicizzate le presunte proprietà.
Se io lanciassi una moneta 10 volte, mi aspetto che il 50% delle volte esca testa, ma per puro caso può anche uscire 6, 7 o addirittura 8 volte. Potrei allora pubblicizzare il mio metodo per "dimostrare scientificamente" che lanciando una moneta viene testa l'80% dei casi?

"Mentire con le statistiche" di Darrell Huff illustra con chiarezza e senza banalizzare varie casistiche, dall'uso ingannevole di grafici a come si può giocare con i numeri o la dialettica per trasmettere il messaggio che si vuole, passando per errori di correlazione, mediane, percentili, bias, percezioni falsate e differenti risultati dei sondaggi a seconda di come si formulano le domande. Tramite numerosi esempi, anche realmente accaduti, che spaziano tra scienza, economia, politica e società, il libro si rivela utile sia per profani che per accademici.

Huff mette in guardia dal non cadere nell'eccesso opposto e rifiutare la statistica per timore di inganni: per lui, conclude, è altrettanto insensato rifiutare arbitrariamente i metodi statistici. Sarebbe come rifiutarsi di leggere perché talvolta chi scrive usa parole per nascondere fatti e correlazioni anziché rivelarle. La statistica è uno strumento. In quanto tale bisogna saperlo maneggiare nel modo giusto e adoperare per le situazioni adatte. Non bisogna vedere chiodi ovunque solo perché si impugna un martello.