21 maggio 2020

“Sapere dove è l’identità è una domanda senza risposta.”
(José Saramago)

La parola identità può essere seguita da differenti aggettivi: c’è un’identità personale, individuale, una sociale, una culturale, etnica, artistica, e via dicendo. Come vedremo, l’identità è il risultato di diverse dimensioni, da quella personale a quella sociale, da quella individuale a quella relazionale, e le ingloba tutte e in misura differente ogni qualvolta si assume un punto di vista diverso. Secondo la definizione di U. Galimberti (1999) “In psicologia, con questo termine s’intende l’identità personale, ossia il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre.”. La psicologia ha sostanzialmente accolto le riflessioni filosofiche di J. Locke e D. Hume, secondo i quali l’identità è un meccanismo psicologico. Non è semplicemente un dato da ritrovare nell’Io, ma una costruzione della memoria, nel senso che il fondamento dell’identità sta nella relazione che la memoria instaura tra le impressioni, che mutano continuamente, il presente e il passato. Si parla di crisi d’identità quando questa costruzione non risulta abbastanza solida. L’identità non si avvale solo però di una memoria individuale, ma anche di una memoria collettiva.
Il primo psicologo che ha affrontato questo tema in modo sistematico è stato W. James (1890), apportando una metafora molto bella ed esplicativa. Secondo James l’identità è un “torrente” ed ha:


  • confini distinti, ben delineati nei confronti dell’ambiente che lo circonda
  • continuità nella direzione
  • autonomia, si muove sotto il proprio peso ed impeto
Ecco i primi due aspetti già trovati prima più un nuovo aspetto importante dell’identità; se uno di questi tre viene meno si può entrare in una sensazione di paura, disagio, e passare dal panico ad un senso di depersonalizzazione, come avviene per esempio quando si ha la sensazione che forze esterne guidino le nostre azioni e i nostri pensieri, oppure quando ci ritroviamo imprigionati in ruoli che sono in contrasto con i nostri valori o ideali.
All’inizio del secolo si erano creati due filoni di ricerca: uno che faceva prevalere il carattere sociologico, indagando dall’esterno le identità (individuali, di gruppo, familiari, ecc…) e le influenze che possono avere su di essa la cultura e l’ambiente; e un altro a carattere psicologico, che dava maggiore attenzione agli aspetti interni.
Il sociologo E. Goffman (1963) propose una distinzione tra un’identità esistenziale ed una sociale: la prima è ben nota e conosciuta dal soggetto, mentre la seconda è quell’identità che si assume davanti al mondo. Immaginando la vita come un teatro, un insieme di ruoli, ogni persona dovrebbe in un certo qual modo recitare di fronte al mondo. L’attore possiede ad ogni modo la capacità di osservarsi dal fuori, quindi anche di distanziarsi dai ruoli che recita. Se esiste questa possibilità è perché, per Goffman, ci muoviamo ad un doppio livello, appunto quello di due identità.

Fu proprio uno dei creatori della psicologia sociale, G. Mead, ad evidenziare le prime difficoltà per una distinzione precisa tra personale e sociale con una concezione interazionista, secondo la quale entra in gioco una dialettica tra le diverse rappresentazioni, psicologiche e sociali: quella del soggetto che percepisce se stesso e gli altri; quella degli altri che percepiscono il soggetto e fungono per lui da feedback; e quella del soggetto che s’immedesima nel punto di vista degli altri facendo in modo che si crei un quadro di norme generali. Compare quindi quella figura che Mead definisce l’”Altro Generalizzato”, la capacità di interiorizzare norme e valori della collettività, che si ha soltanto guardandosi con gli occhi dell’altro, un processo quindi soggettivo ma che non può prescindere dall’altro e dal contesto di relazione.
Sulla scia di Mead si inserisce anche lo psicoanalista E. H. Erikson. Nell’ambiente della psicoanalisi Erikson è stato colui che più ha adottato un orientamento marcatamente socioculturale, interessandosi all’interazione dinamica tra sviluppo individuale e sistemi socioculturali, nonché al concetto di identità vista come “insieme di caratteristiche psicologiche generali che permettono di affrontare i compiti evolutivi fase-specifici lungo l’intero ciclo di vita dell’uomo” (Galimberti, 1999). L’identità quindi svolge un ruolo fondamentale per tutto il corso della vita di un uomo, non risulta mai definitiva ma piuttosto la si può pensare come ad un processo e secondo Erikson diversi aspetti dello sviluppo dell’Io possono essere formulati in termini di crescita del senso di identità. Questo sviluppo ha delle fasi cruciali e sono cosi anche in parallelo con l’identità che attraversa diversi periodi di rottura con il passato e di crisi in cui si vivono fasi di vulnerabilità, ciascuna delle quali però ricca di potenzialità per il futuro, in senso di cambiamento e trasformazione. La più importante di queste crisi nell’età evolutiva è la crisi d’identità dell’adolescenza, che ha una lunga durata, accompagna la persona durante tutta l’adolescenza e dà luogo ad una profonda trasformazione, sia fisica sia psicologica. Questa crisi non sfocia in ogni caso in soluzioni finali, e possono anche perdurare nell’individuo maturo alcuni aspetti problematici.

Parlare d’identità presuppone per forza che si parli anche d’identificazione. Molti dei problemi dell’identità si decidono a livello d’identificazione, ad esempio con le figure parentali che offrono il primo modello per la costruzione della propria identità. L‘identificazione è un “termine psicoanalitico che designa il processo con cui un soggetto assimila uno o più tratti di un altro individuo modellandosi su di lui.”. (Galimberti, 1999). L’identità non viene più intesa solamente come semplice espressione della propria personalità. Freud distingue un’identificazione primaria, in cui l’individuo deve ancora distinguere la sua identità da quella degli oggetti e deve acquistar senso la distinzione Io e Tu (questa è l’identificazione che caratterizza la prima infanzia, soprattutto la relazione con la madre che il bambino inizialmente non avverte come altro da sé), dall’identificazione secondaria, che è invece successiva alla distinzione Io e Tu. Le identificazioni portano quindi il soggetto anche a confrontarsi con le figure importanti e carismatiche della propria esistenza, con gli altri e con il proprio sistema socioculturale in cui si è inseriti, facendo acquisire all’identità un maggiore rilievo relazionale e sociale. Normalmente può essere riscontrata in diverse maniere: come un processo per l’acquisizione di ruoli sociali, assumendo come detto i tratti del comportamento degli adulti nell’infanzia, o delle persone che si ammirano nell’età adulta; come uno strumento per accrescere la propria autostima comportandosi come se si fosse la persona con cui ci si identifica; nel gruppo come identificazione in conformità a ideali e interessi comuni. Non sempre però tutte le forme di identificazione vengono vissute positivamente dal soggetto, che si vede spesso costretto a farne uso date particolari situazioni problematiche. Una di queste forme d’identificazione, che ritroveremo più avanti, è quella introdotta da A. Freud, l’identificazione con l’aggressore, dove il soggetto tende ad assumere la stessa funzione aggressiva, imita i tratti e adotta le espressioni di potenza che caratterizzano figure percepite come aggressive dal soggetto (questo può accadere per esempio in presenza di sistemi socioculturali diversi dove ci si può sentire facilmente discriminati ed emarginati). In ogni caso “Identificarsi con qualcuno è come compiere un’esplorazione dell’altro. Questo viaggio è utile in alcuni momenti o periodi della vita, nell’infanzia addirittura indispensabile.”. (A. Oliverio Ferraris, 2002)
C. G. Jung introduce anche il concetto di un’identità inconscia, differenziandola dall’identità conscia dove il soggetto riflette sulla propria continuità temporale e sulla sua differenza dagli altri. Nel caso invece dell’identità inconscia viene a mancare la autocoscienza che è presente nell’identità conscia e la distinzione psichica tra il sé e gli oggetti esterni. In proposito Jung scrive che «nella partecipazione mistica dei primitivi, nello stato mentale della prima infanzia e nell’inconscio dell’uomo civilizzato e adulto […] l’identità consiste innanzi tutto in un’uguaglianza inconscia con gli oggetti. Essa non è un’equiparazione, un’identificazione, ma un’uguaglianza data a priori che non è mai rientrata nell’ambito della coscienza. Sull’identità si basa l’ingenuo pregiudizio che la psicologia dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che dappertutto valgano gli stessi motivi, che ciò che piace a me debba ovviamente piacere anche agli altri. […] L’identità si rivela in modo particolarmente perspicuo in casi patologici, per esempio nel delirio paranoico di riferimento nel quale viene presupposta come cosa ovvia negli altri l’esistenza del proprio contenuto soggettivo.» (Jung, 1921)
Con questa breve esplorazione attraverso contributi di carattere filosofico, psicologico o sociale, otteniamo una sostanziale descrizione di che cos’è l’identità: una dimensione psichica complessa; un processo sempre in atto; un insieme e allo stesso tempo sintesi tra memorie, immagini, rappresentazioni, percezioni. Le nostre, quelle degli altri e quelle collettive.
“L’identità è come la pelle che ci ricopre: impossibile farne a meno, perché segna il confine tra l’interno e l’esterno di noi, ci definisce e [nello stesso tempo] ci consente di entrare in relazione col mondo.”. (A. Oliverio Ferraris, 2002)

Nessun commento:

Posta un commento