2 giugno 2022

Laurearsi in videogiochi

La prima Università degli eSports nasce a Lione con corsi di Laurea da tre e cinque anni. Si chiama Gaming Campus e offre due tipi di percorsi differenti. Il Gaming Business School formerà infatti gli studenti che vogliono lavorare nell’industria dei videogiochi, contempla una laurea breve dopo tre anni e una specialistica dopo cinque. La Gaming Academy invece sarà un percorso formativo dedicato esclusivamente agli eSports che combina una parte dedicata alle performance sul campo ed una educativa.
L'università di Lione è quindi indirizzata a tutti coloro che desiderano intraprendere una carriera lavorativa nel settore videoludico e in quello degli eSports che sta crescendo a dismisura.
Secondo il recente rapporto divulgato da Newzoo infatti, le competizioni videoludiche registreranno alla fine del 2018 un giro d'affari di ben 738 milioni di euro, mentre l’audience complessivo salirà a 380 milioni di spettatori. I giocatori professionisti in ambito eSports gareggiano per montepremi stratosferici, a cinque e sei cifre, e spesso firmano contratti con importanti società sportive.
L'obiettivo del Gaming Campus è quindi garantire a tutti gli studenti dei due corsi di Laurea un adeguato bagaglio culturale che possa prepararli ad affrontare il mondo degli eSports con un’ottica meno ludica e più professionale. Di seguito le parole di Thierry Debarnot, co-fondatore di questo ambizioso progetto:
Abbiamo annunciato il Gaming Campus lo scorso marzo, ma la scuola aprirà ad ottobre. Io e Valérie Dmitrovic, l’altra fondatrice, abbiamo pensato a questo progetto alla luce di due numeri sorprendenti. Il primo è quello dell’industria dei videogames, che nel 2018 avrà un turn over da 92 miliardi di euro, superando cinema e musica, diventando la fetta più grande del mercato dell’intrattenimento. Il secondo numero che ci ha impressionato, invece, è uno zero! In Europa non esiste nessun corso specifico dedicato esclusivamente all’industria dei videogame, sia a livello di eSports che di videogiochi più in generale
Il Gaming Campus aprirà quindi i battenti nel mese di ottobre, tuttavia solo 70 fortunati studenti hanno ottenuto un posto nella nuova Università di Lione:
Per il primo anno abbiamo limitato l’accesso a 70 posti totali. Tra le tante richieste che sono arrivate abbiamo selezionato con l'aiuto di professionisti del settore, quelli che avevano le competenze migliori.
Ma come si svolgeranno le varie lezioni? Secondo quanto dichiarato da Thierry Debarnot, si giocherà, si faranno simulazioni di tornei, ma si studierà anche sui libri e tra le materie menzionate si parla di economia, marketing, teorie digitali, management, inglese, comunicazione verbale e non e studi sulle community social. Non mancheranno allenamenti individuali, di gruppo, insegnamenti su stile di vita e nutrizione: insomma una vera e propria Università che però siamo certi farà tornare la voglia di studiare a moltissime persone.

25 dicembre 2020


I pensieri ossessivi (rumination, in inglese) hanno una forma circolare e un comportamento a valanga: una volta instaurato il circolo vizioso aumentano nel volume e nella rapidità, lasciando spossati mentalmente e spesso fisicamente. Le tecniche di mindfulness possono essere un approccio interessante per gestire questo tipo di problematica, ma in un soggetto non allenato è probabile che non ci sia un vantaggio immediato.
Il modo migliore per disinnescare i pensieri ossessivi è quello di affrontarli con il contro-pensiero, ossia analizzando la loro anatomia. Uno strumento molto valido è quello di tenere un diario, che non deve per forza essere un trattato di letteratura: bastano pochi indizi ogni giorno. In particolare è utile annotare il momento in cui questi pensieri compaiono (giorno, notte, orario); il modo in cui si manifestano (iniziano in modo controllabile, sfociano in disagi fisici come ansia o attacchi di panico); che cosa causano (impediscono di studiare, lavorare, uscire con gli amici), con quale frequenza e intensità si presentano, come si modificano nel tempo. Con un po’ di lavoro si può risalire al pensiero generatore: spesso il circolo vizioso è una concatenazione di pensieri minori scatenati da un singolo pensiero a monte che può essere oggettivo (“devo pagare il mutuo”) o ipotetico (“penso di non piacere a quella ragazza”).
L’insieme di questi dati auto-raccolti ha due vantaggi fondamentali nella gestione dei pensieri ossessivi:

  • permette di costruire un quadro completo dell’anatomia ossessiva, comprendendo i pattern che lo compongono. Se, per esempio, scopro che l’attacco ossessivo mi capita spesso dopo aver bevuto il terzo caffè, proverò a limitarmi a un caffè


  • permette di modificare i propri comportamenti procedendo per tentativi, limitando l’esposizione a situazioni che potrebbero scatenare/inasprire gli attacchi
  • permette di avere un approccio razionale nei confronti di qualcosa di irrazionale, con un effetto immediato di ridimensionamento e facoltà di gestione
  • permette, nel caso si renda necessario un supporto psicologico, di aiutare il professionista nel suo lavoro di individuazione delle cause
  • 5 giugno 2020

    La dipendenza affettiva

    • Ti sei mai ritrovato ad avere un costante bisogno di rassicurazioni?


    • a ricercare qualcun altro nel prendere decisioni più o meno importanti?


    • o ad avere una forte paura di perdere il tuo partner perchè pensi di non farcela da solo?

    In questo post voglio parlarti di Dipendenza Affettiva: cos’è, quali sono le cause più comuni e come uscirne imparando a diventare emotivamente indipendenti.

    Sarai d’accordo con me:
    Convivere con questa forma di dipendenza non è affatto semplice: ecco perchè saperne di più e capire come si manifesta in varie aree della tua vita potrà esserti d’aiuto e ti permetterà di riacquisire un certo grado di controllo.

    Cosa troverai nell’articolo di oggi:
    – in cosa consiste la Dipendenza Affettiva
    – quali sono le cause che la determinano
    come si manifesta nelle relazioni intime
    – che collegamento ha con il concetto di Narcisismo.

    Parlerò inoltre del trattamento psicodinamico.

    Ma soprattutto ti darò alcuni passi, da leggere con molta attenzione, che ti permetteranno di lavorare realmente su questa problematica (se la sperimenti in prima persona) o di aiutare chi ne soffre a guarire.

    Al solito ho cercato di condensare il miglior materiale possibile sull’argomento in un unico post

    Ti consiglio perciò di leggerlo fino alla fine: all’interno troverai concetti che spesso emergono solo dopo un intenso e profondo lavoro su se stessi.
     
    Sei pronto?

     
    Cominciamo…

    UN CASO DI DIPENDENZA AFFETTIVA: LA STORIA DI C.


    C. è una mia ex paziente che mi aveva contattato perchè si ritrovava in una relazione con un uomo che la trattava male, la ignorava e pensava solamente ai suoi bisogni.

    Mi raccontò come all’inizio era un uomo affettuoso e premuroso, attento.

    Dopo un periodo di circa un anno però si era ritrovata con una persona completamente diversa accanto. E questo le era capitato anche in altri rapporti, nei quali finiva a ricoprire il ruolo della debole e di colei che non può affrontare la vita da sola.

    Si sentiva sempre di dare molto di più di quanto riceveva, ma al contempo sentiva di non meritare e di non valere nulla.

    Aveva una visione di sé molto negativa: bisognosa, debole, incompetente, stupida.

    L’atteggiamento di quest’uomo la portava a soffrire, ma contemporaneamente a non riuscire a farne a meno, ad avere comportamenti controllanti, gelosia, ansia e rabbia.

    Una profonda paura di restare sola.

    Solo col tempo siamo riusciti a fare collegamenti tra tutti i suoi rapporti comprendendone i significati più profondi, così come associazioni con i vissuti della sua infanzia:

    l’eccessivo bisogno di cure e di protezione era associato ad una profonda paura della solitudine, infatti proprio i suoi genitori la avevano lasciata sola per gran parte della sua vita.

    Vedremo tra poco come la storia di C. sia molto simile a tante altre storie di Dipendenza Affettiva e non solo.
     

    DIPENDENZA AFFETTIVA: COS’È


    E’ proprio quando la tua felicità viene affidata ad un’altra persona che potresti ritrovarti a sperimentare la dipendenza affettiva.


    Esistono diversi sintomi che la caratterizzano, così come possono essere moltissime le cause che la determinano.

    Come abbiamo visto per la storia di C., tra le caratteristiche fondamentali c’è la tendenza a perdere se stessi nella relazione (che può essere intima, amicale, con membri della famiglia).
     
    L’altro diventa il centro del nostro mondo interiore e viviamo come se esistesse solo questa persona. Il senso di noi stessi tende a scomparire. La nostra felicità dipende da elementi al di fuori di noi e fuori dal nostro controllo.
     
    Mi segui ancora?
     
    Bene.

    Perchè ora andrò a parlare di quelle che sono le espressioni tipiche di questa dipendenza, come si presenta nell’ambito delle relazioni, per poi approfondire successivamente il collegamento con il Disturbo Narcisistico di Personalità.


    DIPENDENZA AFFETTIVA: COME RICONOSCERLA


    Esistono alcuni elementi fondamentali da tenere in considerazione nel riconoscere la Dipendenza Affettiva.

    [Ricorda però: non devi assolutamente fare autodiagnosi!
    Ricordati che questa può esser fatta solo da un professionista esperto]

    Vediamoli:

    1) Perdere il senso di sé, del proprio centro, del senso della propria autorità con conseguente tentativo di controllare gli altri (in particolare il partner).

    2) Assumere la responsabilità emotiva di soddisfare i bisogni degli altri (in particolare il partner), escludendo di riconoscere i nostri.

    3) Tendere a trattare il partner non come una persona separata ma come un’estensione di noi stessi con un conseguente bisogno eccessivo di rassicurazioni e attenzioni.

    4) Riconoscere un senso di bassa autostima, un profondo bisogno di validazione, di affetto ed una profonda paura della solitudine.

    5) Avere grossa difficoltà a fidarsi degli altri e a credere di essere meritevoli di amore.

    6) Sentirsi sicuri solamente quando si è in una relazione, ma aver contemporaneamente paura costante che possa interrompersi.

    7) Tendenza a mettere il partner su un piedistallo, avere pensieri ossessivi su cosa fa o dov’è, difficoltà a dirgli di no.

    8) Gelosia eccessiva

    9) Preoccupazione legata al fatto che il partner possa perdere interesse in noi.

    10) Sensazione di scegliere sempre il partner sbagliato.

    Il termine Dipendenza Affettiva quindi si riferisce a quando una persona permette agli altri significativi (ma non solo) di influenzare i suoi sentimenti ed emozioni o dipendere da loro per sentirsi serena. In poche parole lascia il completo controllo agli altri sulle sue emozioni.


    Ciò può diventare patologico (Disturbo Dipendente di Personalità) ed impattare negativamente l’autostima, proprio perchè anch’essa dipende dal parere degli altri.

    Il partner dipendente si annulla completamente per l’altro la cui esistenza, presenza e vicinanza diventa sostanziale al proprio benessere, alla percezione di essere vivi e utili.

    Così come per una sostanza, per l’alcool o per il gioco, questa diventa una vera e propria Dipendenza.

    Uscire dalla relazione diventa difficile così come smettere di bere o di assumere droga. Questa dipendenza finisce con controllare l’abilità del soggetto di razionalizzare e fare scelte adeguate ad i suoi interessi.

    Anche se molti sono d’accordo sul dover terminare la relazione, alla fine si ritrovano a non poterne fare a meno.

    Pensaci bene:

    La Dipendenza Emotiva può assumere diverse forme, ma di fondo stai cercando un senso di realizzazione da qualcosa o qualcuno esterno a te.

    La forma più comune è proprio la ricerca di amore, sicurezza, approvazione o apprezzamento da un’altra persona (ad es. il partner o il genitore).

    Non è così raro trovare un uomo emotivamente dipendente da una donna e che cerca la sua presenza per sentirsi completo, oppure una donna che è emotivamente dipendente da un uomo per sentirsi sicura.

    E nel momento in cui l’altro si allontana si finisce per provare un profondo senso di vuoto fino alla depressione.


    DIPENDENZA AFFETTIVA: CAUSE PIU’ COMUNI


    La dipendenza affettiva ha radici profonde che risalgono alla prima infanzia.
    Durante quel periodo facciamo affidamento sui nostri genitori per tutti i nostri bisogni emotivi: amore, sicurezza, validazione ecc. ma anche per i bisogni primari.

    La dipendenza emotiva comincia proprio quando un bambino non è amato dalle persone che si dovrebbero prendere cura di lui (genitori, fratelli, persone vicine). Ogni tentativo di affermare se stessi o mostrare la propria individualità viene punito ed il bambino impara ad evitare i conflitti e a sentirsi in colpa per i propri bisogni.

    Questa mancanza di amore genera un senso di scarsa autostima, un problema che tende ad aumentare durante l’adolescenza.

    Questa mancanza di autostima che deriva dall’infanzia è la causa principale di questo tipo di dipendenza. È il risultato di un ricatto emotivo che insegna al bambino che verrà amato solo se rispetta le aspettative dei genitori o di altre persone significative.

    Sarai d’accordo con me:

    Esistono moltissime situazioni familiari che possono portare ad una Dipendenza Affettiva e non potrei mai essere esaustivo in un unico post.

    Tra le tante situazioni possibili vorrei però sottolinearne 2:

    1) I nostri genitori sono stati iperprotettivi e non hanno mai creduto in noi: hanno pensato a tutti i nostri bisogni senza darci la possibilità di sviluppare una nostra indipendenza e forza emotiva.

    Questo ci ha portato a crescere e diventare adulti incapaci di affrontare le difficoltà da soli, ricercando sempre qualcun altro che lo possa fare al posto nostro.

    Questo ci ha portato, inoltre, a cercare di soddisfare i nostri bisogni in una relazione, riversandoli sul partner: ma se non siamo emotivamente indipendenti finiamo per essere bisognosi ed essere la stessa causa del suo allontanamento.

    2) I nostri genitori sono stati assenti o evitanti: non si sono mai interessati ai nostri bisogni emotivi e ci hanno portato a sentirci incapaci o senza valore. In questo caso il partner può indicare per noi un modo per avere finalmente quell’amore che non abbiamo mai avuto da piccoli.

    Quindi perderlo significherebbe avere sensazioni di solitudine, vuoto e profonda disperazione (che possono sfociare nella Depressione Cronica)

    Questi traumi che provengono dal passato hanno un profondo impatto anche sulla vita attuale: nel tempo si sono sviluppati dei meccanismi di difesa che hanno portato a strutture rigide nella personalità.

    Potresti letteralmente aver imparato a focalizzarti maggiormente sul benessere altrui senza tener conto del tuo, così come a riconoscere il tuo valore in base a ciò che trasmettono gli altri.

    Come adulto, potresti ricreare situazioni nelle quali interpreti un ruolo sottomesso, cercando sempre di compiacere gli altri così da mantenere una relazione con loro ed evitare in tutti i modi il rifiuto.
     
    Tutte cose su cui riflettere!
     

    La Dipendenza Affettiva come fallimento nella costruzione dell’Autostima

    L’autostima del bambino e la sua capacità di essere solo vengono costruite attraverso il riflesso della fiducia che i suoi genitori ripongono in lui.

    Il bambino può avere problemi in questa fase proprio perché i genitori rimandano messaggi conflittuali sulle sue capacità: il piccolo non è infatti in grado di interiorizzare queste qualità e ha bisogno di un adulto per sentirsi sicuro.


    Episodi di indifferenza, abuso, negligenza o manipolazione sono manifestazioni di modelli psicologici disordinati o addirittura patologici.

    Non si può negare:

    Come esseri umani, tendiamo a cercare e a riprodurre ciò che ci è familiare, in particolare ciò che abbiamo visto nella nostra prima infanzia. Questi modelli di comportamento appresi durante l’infanzia lasciano un’impronta profonda in ognuno di noi.




    Anche se particolarmente evidente nella prima infanzia, il comportamento di attaccamento caratterizza l’essere umano dalla culla alla tomba
            J. Bowlby


    Dopo aver esaminato quelle che possono essere le radici della Dipendenza Affettiva andiamo ora ad esaminare le differenze tra un rapporto di coppia sano e uno dipendente.
     

    LE PRINCIPALI DIFFERENZE TRA UNA RELAZIONE SANA E UNA DIPENDENTE


    E’ un grande errore confondere l’affetto e l’amore con la dipendenza o con l’essere in una relazione tossica.

    Ciò accade particolarmente quando l’autostima di una persona è bassa e ricerca accettazione e amore dagli altri, anche se ciò significa compromettere la sua stessa dignità.

    La persona emotivamente dipendente accetta anche l’abuso come qualcosa di normale: tende ad essere attratta dalle persone molto sicure di se stesse, dominanti. Queste le danno la sensazione di avere valore per il fatto di averle scelte per stare in coppia.

    Vedremo tra poco anche il collegamento tra Disturbo Narcisistico e Dipendenza Affettiva.

    Il concetto di relazione sana fa riferimento al rispetto e allo scambio reciproco (anche a livello affettivo), cosa che avviene di rado in un rapporto di dipendenza.

    Alcuni comportamenti sono chiari indicatori di relazioni disfunzionali. Tra questi ritroviamo:
    – la tendenza a manipolare o dominare l’altro – confondere il desiderio con l’amore – il focalizzarsi solo sulla soddisfazione dei propri bisogni affettivi – la gelosia eccessiva e possessiva – la mancanza di rispetto – la mancanza di libertà – la violenza e l’aggressività verbale e fisica – l’abuso

    Quando la relazione diventa di dipendenza, spesso si vanno a creare ruoli ben definiti in cui un partner è dominante e l’altro è sottomesso. Si arriva a situazioni in cui il partner “inferiore” può arrivare a fare qualsiasi cosa pur di mantenere la relazione, persino accettare continui tradimenti, mancanza di rispetto, violenza fisica e psicologica.

    Chiariamoci:
    Comprendere la differenza tra una relazione di questo tipo ed un rapporto di coppia sano è fondamentale. Il punto di partenza è proprio cominciare a cercare la propria felicità e validazione all’interno e non più all’esterno.
     

    10 elementi essenziali in un rapporto di coppia sano

    Vediamo ora alcuni punti essenziali di un rapporto di coppia sano:

    1. Siete felici quando passate del tempo insieme: sembra ovvio, ma quando si è in una relazione sana si gode del tempo passato insieme. Al contrario, in una relazione dipendente ciò spesso non accade.

    2. Potete essere felici quando non siete insieme: passare del tempo per conto proprio viene vista come una parte sana della relazione. Nel caso della dipendenza emotiva, invece, spendere tempo da soli viene visto come spaventoso.

    3. Ciò che ti spaventa di più dal rompere la relazione è l’idea di non avere l’altro nella tua vita, non restare solo o single: ciò che ti spaventa quando pensi di perdere qualcuno può dirti molto di ciò che provi per lui/lei. Se la rottura ti provoca principalmente paura di non riuscire a trovare qualcun altro o rimanere solo/a, tendi ad essere più dipendente di quanto pensi.

    4. Senti che la vita ti porta ad aprirti di più, invece che ritirarti: la dipendenza ti porta a chiuderti e ad isolarti sempre di più con il tuo partner invece che ingaggiare attivamente il mondo.

    5. Non hai una profonda paura di perdere l’approvazione: in un rapporto di coppia sano dovresti poter sentirti libero di parlare apertamente, essere più te stesso non meno.


    6. Il tuo partner non cerca di manipolarti, continuando a ferirti: la più ovvia differenza tra una relazione sana e una dipendente è semplicemente la qualità della relazione stessa: il vostro rapporto è caratterizzato da amore e rispetto reciproco.

    7. Non ti senti mai costretto a fare qualcosa che il tuo partner vuole e tu no: il tuo star bene è più importante per lui/lei rispetto a desideri temporanei.

    8. Hai iniziato la relazione da un luogo di amore e non di disperazione: ciò che vi ha unito è stato l’affetto e l’attrazione reciproca, non l’incapacità di stare soli o di colmare i propri bisogni emotivi.

    9. La tua relazione ti porta più pace, tranquillità e felicità di quanto non porti paura, gelosia o preoccupazione: è completamente normale sentirsi gelosi ogni tanto o preoccuparsi che qualcosa vada storto, ma in una relazione sana ciò che è positivo è di gran lunga superiore. Quando sei in una relazione dipendente la paura dell’abbandono è spesso più forte di tutto il resto.

    10. Ami il tuo partner per quello che è, non per quanto ama te: quando sei in una relazione dipendente ti ritrovi spesso a dubitare di ciò che il partner prova per te. Questo ti impedisce di amarlo per ciò che è e ti porta ad aver bisogno di continue dimostrazioni ed a manipolarlo inconsciamente.

    In conclusione:

    se non ami prima di tutto te stesso non sarà possibile amare realmente l’altro. Il valore che senti di avere è fondamentale proprio per non ricercarlo al di fuori rendendo la relazione dipendente.
     

    Che tipo di relazione stai vivendo? Prova a farti queste domande…

    Dopo aver visto alcune delle differenze tra una rapporto di coppia sano ed una relazione dipendente, vorrei ora proporti alcune domande su cui riflettere.

    Queste domande non hanno la pretesa di essere esaustive, ma potranno aiutarti a valutare meglio il tuo modo di entrare in relazione:

    – Cerchi un partner che ti renda felice? – Che tipo di rapporto pensi di avere con il tuo partner attuale? – Hai scoperto dalle relazioni passate che hai la tendenza ad idealizzare le persone? – Tendi a proiettare su di loro come vuoi che loro siano, piuttosto che come sono? – Ti concentri principalmente su come ti tratta il tuo partner piuttosto che su chi lui sia veramente dentro? – Ti senti speciale solo in base a come ti fa sentire l’altro? – Hai reso il tuo partner responsabile della tua felicità, del tuo valore e della tua sicurezza? – Ti sei mai sentito ansioso quando non sei con il tuo partner o quando non ti chiama quando te lo aspetti? – Hai un elenco di aspettative che il tuo partner deve soddisfare per farti sentire amato e al sicuro? – Senti di non poter vivere senza questa persona o sei terrorizzato dall’idea di perderla? – Ti sei mai sentito geloso o possessivo nei suoi confronti?

    Rispondendo a queste domande potresti ritrovarti ad osservare in te stesso alcuni tratti di dipendenza.

    Ciò non significa che ci sia qualcosa di sbagliato in te:
    riconoscere le proprie debolezze è il punto di partenza per poterle affrontare.

    Ricordati:
    la dipendenza affettiva nasce sempre dalla paura della perdita e dell’abbandono. Queste paure hanno radici molto antiche e non sono sempre facili da analizzare e affrontare.

    Come sempre la consapevolezza è il primo passo.
     

    Che legame esiste tra disturbo narcisistico e dipendenza affettiva?

    Al giorno d’oggi sono molto di moda termini quali: narcisismo patologico, narcisista perverso, manipolatore ecc.

    Per quanto questi termini possano attrarre e colpire il lettore, in realtà non esistono in campo psicologico concetti del genere.

    L’unico disturbo che viene menzionato nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5) è il Disturbo Narcisistico di Personalità: le persone che soffrono di questo disturbo tendono a vedere loro stesse come speciali ed uniche, superiori alle altre e mancanti di empatia e sensibilità nei confronti delle esigenze altrui.

    Le persone dipendenti, come abbiamo visto, mancano di una sana relazione con se stessi.

    Stessa cosa succede in chi soffre di disturbo narcisistico: mettono loro stessi sopra tutti gli altri, usano gli altri per i loro scopi e sfruttano le relazioni senza sensi di colpa o rimorsi. Tendono ad incolpare gli altri senza vedere i loro errori.


    È facile perciò capire come dipendente e narcisista si colleghino l’un l’altro come pezzi del puzzle, ma esiste anche una connessione più profonda.

    Esistono veri e propri collegamenti familiari in questa connessione: se hai un genitore narcisista, potresti diventare te stesso dipendente o narcisista.

    Ma non tutto è perduto:
    quando una persona comincia a risolvere le cause della propria dipendenza, può cominciare a delineare confini e resistere ai tentativi di manipolazione del soggetto narcisista.

    Molte persone, soprattutto donne, al giorno d’oggi si ritrovano in questo tipo di relazioni.

    La buona notizia è che la strada per il recupero è proprio legata alla profonda comprensione da parte della persona dipendente della mancanza di compassione del narcisista e delle sue continue manipolazioni. E al contempo una profonda riscoperta del proprio valore intrinseco.

    Il narcisista ha il grande problema di non riconoscere errori in se stesso e questo gli impedisce di cambiare. E spesso il dipendente finisce con il convincersi che l’altro vale di più ed è l’unico che può dare quel valore tanto desiderato. In realtà il narcisista ha esattamente le stesse profonde insicurezze, ma agisce in direzione opposta.

    Ed ecco l’incastro perfetto!

    Ok abbiamo affrontato già un bel pò di argomenti.
    Adesso vorrei parlarti brevemente di come la Psicoterapia Psicodinamica possa essere il modo migliore di affrontare i problemi di Dipendenza.
     
    Continua a seguirmi perchè a breve arriviamo alla parte pratica!

     
    Andiamo avanti!


    DIPENDENZA AFFETTIVA: COME USCIRNE CON LA PSICOTERAPIA PSICODINAMICA


    La psicoterapia psicodinamica di solito richiede un impegno a medio-lungo termine, ma è uno degli approcci più efficaci per trattare la dipendenza affettiva.

    Durante il percorso, il terapeuta ti guida nell’esplorazione delle connessioni tra la psiche, la personalità e la cognizione e come queste influenzano i processi mentali, emotivi o comportamentali a livello inconscio.

    In parole povere, il terapeuta ti aiuta ad analizzare la radice dei tuoi problemi di dipendenza attuali: questa analisi permette di cominciare a vedere le problematiche di dipendenza così come l’intensa paura dell’abbandono come derivanti dai primi rapporti con figure genitoriali eccessivamente controllanti o evitanti (o persino abusanti).

    Tutti i sintomi della Dipendenza Affettiva vengono visti come elementi da comprendere, ascoltare e valorizzare, piuttosto che combattere o giudicare.

    L’elemento fondamentale è proprio la relazione che si va a formare tra paziente/cliente e terapeuta.

    Ti verrà spontaneo chiederti:
    Ma allora si può sviluppare anche una certa dipendenza emotiva verso il terapeuta?

    Assolutamente si.

    Potresti aver sentito l’opinione cinica espressa da molti riguardo il fatto che gli psicoterapeuti manipolino deliberatamente i propri pazienti/clienti facendoli dipendere emotivamente da loro.

    Molte persone infatti temono ciò e credono che la dipendenza emotiva in psicoterapia sia una cosa negativa.

    In realtà, affinché la psicoterapia sia efficace un certo grado di dipendenza emotiva è auspicabile: pazienti che soffrono molto o sono confusi, che hanno una storia di relazioni instabili e caotiche possono sviluppare una certa dipendenza anche per periodi di tempo lunghi.

    Pensaci:
    se la tua vita non va come vorresti, sei cresciuto in un ambiente particolarmente complicato e non hai mai potuto sviluppare una certa capacità emotiva o auto-consapevolezza non puoi evitare di dipendere da qualcuno che ti aiuti ad accrescere queste abilità.

    Sicuramente non è semplice affidarsi a qualcuno, soprattutto dopo aver vissuto certe esperienze, ma è necessario se si vuole uscirne e va fatto con i propri tempi.

    Ovviamente il terapeuta deve aver lavorato a fondo su se stesso così da non favorire una dipendenza eccessiva che porterebbe il paziente a mantenere il suo problema e a non permettergli di sviluppare una sana autonomia.

    Ecco perchè ho scritto un’intera guida per aiutarti a scegliere il terapeuta più giusto per te. Puoi trovarla qui

     
    Ed eccoci arrivati finalmente alla parte pratica!


    COME LIBERARSI DALLE CATENE DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA E DIVENTARE EMOTIVAMENTE INDIPENDENTI

    catena
    Dobbiamo comprendere a fondo che per essere liberi dalla dipendenza emotiva bisogna intraprendere un viaggio di ritorno al nostro Vero Sè.

    Capisco che ciò possa creare molte resistenze, ma la ritengo l’unica strada percorribile.

    Questo viaggio ha a che fare con la “realizzazione di sé” e non con l’utilizzo degli altri per compensare le proprie mancanze affettive.

    E comincia sempre guardandosi dentro.

    Ecco perchè in questa parte ho raccolto da vari esperti e dalla mia personale esperienza gli 8 passi indispensabili per diventare emotivamente indipendenti sia nelle relazioni che nella vita.
     
    Sei pronto?

     
    Cominciamo!
     
    1) EVITA DI DARE LA RESPONSABILITA’ AGLI ALTRI PER LA TUA FELICITÀ
    Le persone che non riescono a badare a loro stesse a livello emotivo cercano spesso qualcun altro che lo faccia al posto loro.

    Ma a prescindere da quanto qualcun altro riesce a farti sentire bene, è fondamentale sviluppare una certa fiducia in te stesso e nelle tue capacità.

    Per imparare ciò è necessaria tanta auto-osservazione e pratica: non è sicuramente semplice ma ciò può aiutarti a sviluppare indipendenza ed autonomia.

    Potresti avere pensieri quali:
    Solo qualcun altro può rendermi felice
    Non posso amare me stesso se qualcun altro non mi ama

    Quando pensi in questo modo, ciò che accade realmente è che stai rendendo la tua felicità dipendente da quella persona. Si crea un circolo continuo di ricompensa e punizione.

    E la dipendenza stessa ti rende infelice.

    Un importante passo verso la strada della libertà è quello di permettere alle altre persone di essere libere piuttosto che avere risentimenti nei confronti dei loro comportamenti. Puoi sempre cercare aiuto ma non puoi pretenderlo perché alla fine dei conti nessuno ti deve nulla.
     
    Il tuo amore per te stesso va costruito dall’interno.




    Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore che dura una vita
           O. Wilde


    2) IDENTIFICA IL MECCANISMO DELL’IDEALIZZAZIONE
    L’idealizzazione ci porta ad immaginare l’altro come perfetto o a vederlo su un piedistallo: tendiamo a vedere soprattutto gli elementi positivi e a negare o giustificare quelli negativi. Ciò può portarci a dare più importanza ai desideri dell’altro piuttosto che ai nostri.

    Pensaci:
    questo meccanismo ti porta sempre a soffrire e a non vedere l’altro in maniera obiettiva.

    In realtà quello che inconsciamente finiamo a fare è utilizzare l’altro per colmare le nostre insicurezze e renderlo l’unico che può farlo.

    L’altra persona sente di avere completo potere su di noi e questo può portarla a manipolarci o a farci soffrire (ho già discusso prima il collegamento con l’individuo narcisista che è proprio attirato da personalità dipendenti).
     
    3) IMPARA A PRENDERTI MAGGIORMENTE CURA DI TE STESSO A LIVELLO EMOTIVO
    Ho raccolto qui alcuni punti essenziali:
     
    – riconosci i tuoi bisogni e rendi prioritaria la tua felicità
     
    – Riconosci il tuo valore e lavora sul migliorare la tua autostima: metti in dubbio i tuoi pensieri negativi su te stesso, focalizzati sui tuoi punti di forza e riconosci i tuoi limiti, lavora sui tuoi obiettivi e comincia a comprendere che in realtà sei in grado di fare ciò che è meglio per te (o farti aiutare se non riesci).
     
    – Osserva i comportamenti che ti portano ad attaccare te stesso e sostituiscili gradualmente con comportamenti di comprensione e accettazione.
     
    – Sviluppa la tua curiosità intellettuale: apprendi e scopri cose nuove su di te, sugli altri e su ciò che ti accade. Cerca tutto ciò che ti potrebbe appassionare.
     
    – Impara a osservare con calma, guardare e sperimentare pienamente tutte le emozioni (anche quelle negative).
     
    – Condividi e riconosci i tuoi bisogni affettivi: non esiste una sola persona che può ascoltarti e comprenderti. Costruire una cerchia di amicizie o parlare con un terapeuta possono essere ottimi modi per condividere ciò che hai dentro.
     
    – Quando sbagli qualcosa non essere troppo duro con te stesso, consideralo sempre un passo necessario ad imparare cose nuove.
     
    – Cerca di portare la tua attenzione al momento presente per quanto possibile: questa pratica ti permette di non favorire troppo la ruminazione del pensiero, che amplifica maggiormente emozioni e pensieri negativi.
     
    – Circondati di persone che ti valorizzano e non di persone tossiche che ti fanno soffrire.
     
    4) RICONOSCI I MODELLI DISTRUTTIVI DERIVANTI DALL’INFANZIA
    Come già sottolineato in precedenza, la maggior parte delle problematiche di Dipendenza Affettiva provengono da esperienze difficili durante l’infanzia o l’adolescenza

    Riconoscere questi eventi e il modo che hai usato per affrontarli è un ottimo modo per capire come mai oggi ti ritrovi a sperimentare la dipendenza emotiva.

    Questo non significa perdersi nel proprio passato, ma esplorare quelli che sono i modelli che hai appreso (in maniera perlopiù inconsapevole) per provare a distaccartene.

    In un certo senso la dipendenza affettiva si autoalimenta: si può parlare di circolo vizioso e profezie autoavveranti. Ad es. ho osservato come alcuni pazienti, nonostante si rendano conto razionalmente che stanno sbagliando, non riescono a fare altrimenti.

    Ciò succede perché i modelli che abbiamo costruito nel corso degli anni sono rigidi e non permettono alla persona di sperimentarsi in un modo diverso.

    In un certo senso è necessario disimparare prima di poter imparare qualcosa di nuovo.

    La terapia in questo può aiutare molto: una parte della soluzione proprio imparare a distinguere tra le situazioni presenti e quelle che sono accadute nel passato. Ciò può portare anche ad osservare e distinguere tra il bambino che eravamo tempo e l’adulto che vogliamo diventare.
     
    5) DIVENTA CONSAPEVOLE DELLA PAURA CHE STA ALLA BASE DELLA TUA DIPENDENZA
    Un bambino è incapace di comprendere i modelli di dipendenza che la mente comincia a sviluppare per sopravvivere durante l’infanzia.
    Ma molti di noi continuano a ripetere questi modelli anche da adulti, perché falliscono prima di tutto nell’individuarli e poi nel crescere al di là di questi.

    C’è molta paura che si nasconde dietro la maschera della dipendenza emotiva.

    È strano, ma per molti di noi, la più grande paura è quella di essere con noi stessi, soli con il nostro essere. Perciò cerchiamo costantemente di distrarci e gli oggetti della distrazione tendono a diventare fattori di dipendenza.
     
    Il percorso verso la libertà sta nel far subentrare la coscienza in tutti i nostri modelli di comportamento e nei nostri vissuti emotivi inconsci.
     
    6) NON AVER PAURA DELLA SOLITUDINE
    Una delle ragioni principali per le quali si sviluppa la dipendenza è la paura di stare soli. Ho già approfondito questo argomento in un articolo dedicato (solitudine interiore).

    Cerchiamo costantemente qualche forma di intrattenimento o di distrazione solo per evitare di restare soli con noi stessi.

    Siamo spaventati “dall’essere” così continuiamo a “fare“.

    Tutta la dipendenza, o la sensazione di incompletezza, esiste perché tendiamo a cercare la soddisfazione al di fuori, non dentro di noi.

    E nella solitudine possiamo trovare tutta la nostra forza.

    Se riusciamo ad affrontare questa paura, potremo vedere tutto ciò che c’è al di là.
     
    7) PONITI L’OBIETTIVO DI SCOPRIRE CHI SEI VERAMENTE
    La maggior parte di noi non ha idea di chi è veramente, così finisce ad essere completamente dipendente da una autoimmagine che si è costruito.
     
    L’autoimmagine è però semplicemente un’idea che ha bisogno di contenuto per mantenersi in vita. Questo contenuto è di solito fornito dagli altri, ecco perché li cerchiamo sempre per definirci.

    In effetti, la causa principale della dipendenza emotiva è proprio un’immagine di sé negativa che si è costruita nel tempo. Chiunque abbia un’immagine negativa di se stesso sarà sempre emotivamente dipendente da persone o oggetti per trovare un senso di dignità o sicurezza.

    Se vuoi liberarti dalla dipendenza affettiva, dovresti perciò cercare chi sei veramente al di là di tutte queste “autoimmagini” che la mente ha creato.


    8) COMINCIA A LAVORARE SULLA COSTRUZIONE DI CONFINI BEN DEFINITI
    Uno dei passi fondamentali da fare per recuperare dalla Dipendenza Affettiva è imparare a costruire appropriati confini emotivi. Questo è un argomento decisamente vasto e probabilmente scriverò un intero articolo al riguardo.

    2 giugno 2020

    Estate, la stagione dei rischi

    Leggo un articolo. Uno come tanti, niente di speciale. "Giovani al volante, più rischi d'estate". Ovvio. Sono allegri, bevono, si divertono, fanno i fighi tra loro e...si distraggono. Ma il punto non è questo. Il fatto è che leggendo mi accorgo che d'estate siamo più a rischio di tutto. E mi sembra un'ingiustizia. Più rischi per la salute: dagli eritemi alle congestioni, dalle insolazioni alla disidratazione, passando per punture di zanzara ed influenze di stagione. Più rischi emotivi: rischio di divorzio, per via del troppo tempo passato insieme per due che d'inverno sono poco più che estranei ed usano il lavoro e i figli per mantenere il distacco, rischio tradimento per i motivi di cui sopra e per l'ormone che d'estate impazzisce, rischio esaurimento nervoso per le vacanze passate con gli amici o i parenti sbagliati. Per le vacanze sbagliate, deluse, non scelte ma subite per accontentare gli altri. Per assenza di vacanze , perché c'è crisi e quest'anno non si può . 
    Rischio solitudine, capita ai più deboli, ai bambini e ai vecchi. Ai bambini e ai ragazzi mancano gli amici, ai vecchi mancano tutti.
    Rischio nostalgia. Per chi non c'è più . La mancanza di chi ci ha lasciato, d'estate si sente di più . Persone volate via, genitori, nonni, a volte purtroppo figli, ma anche amori finiti, amori sbagliati, amicizie tradite. D'estate la mente torna a loro, più spesso se è possibile. Perché la felicità è estiva e le vacanze raccontano i ricordi più belli. Perché nella libertà mentale si fa spazio la nostalgia. Forse, il rischio maggiore dell'estate è proprio la libertà perché la libertà è innanzitutto un rischio. Il rischio di essere felici.

    27 maggio 2020

    Un evento traumatico può segnare in modo significativo la persona che lo vive, in modo particolare se si presentano le seguenti caratteristiche:
    • la persona non è preparata a tale evento (da intendersi sia a livello mentale che corporeo)
    • l’evento è dirompente e non previsto
    • senso e/o vissuto di impotenza
    • picchi emotivi non gestibili
    • alterazione o modificazione fisica
    • informazioni causali e contestuali discordanti e non integrabili
    • relazioni manipolative o ambivalenti rispetto alle persone coinvolte
    • senso di colpa per la causa o le conseguenze dell’evento
    • aver provato emozioni non socialmente accettabili
    • alterazione prolungata della fisiologia psicocorporea (in particolare immobilizzazione fisica prolungata)
    • iperstimolazione sensoriale
    • vissuto di invasione e intrusione
    Il trauma non consiste in una alterazione dei soli processi mentali, sostiene modificazioni strutturali a livello cerebrale e alterazioni nei normali processi di comunicazione tra diverse aree del cervello e nella connessione mente-corpo.Per fare qualche esempio: diventa più difficile attivare le cortecce prefrontali a supporto delle decisioni logiche; i ricordi
    vengono “archiviati” in modo non corretto; le sequenze narrative diventano discontinue; la produzione degli ormoni caratteristici delle reazioni di allerta e paura è sempre alta, anche in condizioni di tranquillità. Tutto il corpo ne è coinvolto. Chi desidera approfondire questi aspetti in modo dettagliato e con riferimenti scientifici precisi può leggere gli altri due articoli che abbiamo scritto sugli effetti dei traumi e sugli eventi avversi.

    Trauma depressione

    Gli effetti di un evento traumatico possono durare per anni e, spesso, le sue ricadute tendono a peggiorare nel corso del
    tempo. Queste conseguenze possono essere evidenti, come il disturbo post-traumatico da stress, disturbi dell’umore come ansia o depressione, ma possono essere anche meno
    evidentemente legate al trauma originario come deficit dell’attenzione o comportamenti impulsivi, obesità o – al contrario – eccessiva fissazione per le diete e l’esercizio fisico, marcata insicurezza di base e/o difficoltà a fidarsi degli altri, rigidità nei comportamenti o iper-moralità, essere incapaci di sostenere il proprio pensiero e la propria posizione.

    1. Abitudini e parametri di riferimento

    Se il trauma è avvenuto indietro nel tempo, spesso non c’è più una vivida memoria dei fatti o non c’è ricordo del tutto. Inoltre tutte le alterazioni negli schemi di pensiero, nelle modalità relazionali e nell’attivazione e reazione emotiva sono diventate ormai abituali.
    Quando uno schema persiste da tempo il nostro sistema percettivo lo rende il parametro di riferimento a cui ci rifacciamo per valutare ogni novità. Questo è il motivo per cui, anche al di fuori del trauma, tendiamo a “misurare” immediatamente gli altri come “vicini” o “lontani” dal nostro modo di essere, facendo molta fatica a valutarli in modo oggettivo e neutrale.
    Le persone traumatizzate spesso non si accorgono delle loro difficoltà e di modalità non più funzionali. Per questo diventa fondamentale aiutarle a percepire come tutto il sistema di riferimento sia sfalsato. Questo è possibile farlo in tanti modi, vediamo un paio: ristimolando in modo corretto la percezione, la sensorialità, la consapevolezza corporea  statica e di movimento al fine di sentire quello che sta succedendo in tempo reale e misurandolo sulla sensazione istantanea senza riportarlo a punti di riferimento pregressi; offrendo strumenti che favoriscano la visione di sé, dei propri comportamenti, delle proprie reazioni emotive e delle dinamiche relazionali in contesti diversi, da punti di vista differenti secondo prospettive anche incoerenti tra loro, in modo da indebolire la fissità di riferimento.PERCHÈ È DIFFICILE SUPERARE IL TRAUMA (e qualche suggerimento per farlo)

    2. Sintomo o causa

    traumaIl sintomo diventa spesso il focus dell’attenzione. Molte persone si concentrano sulla lotta con la loro ansia o la dipendenza (da alcol ad esempio) tanto da non porsi il problema di quale sia la causa. Talvolta la causa viene anche ricercata, ma ci si ferma alle più facili e immediate risposte: genetica, infanzia difficile, stress, ecc. Queste possono essere anche parte del problema, o il trauma può risiede in esse, ma capirlo e individuarlo permette di andare oltre alla lotta con il sintomo.

    3. Agire a tutti i livelli

    Il danno generato da un trauma è sempre anche neurobiologico: dall’eccessiva produzione di cortisolo alla riduzione dell’ippocampo, dall’infiammazione immunitaria (vedi articolo) fino all’epigenetica
    Le evidenze scientifiche che hanno portato a questa consapevolezza ci permettono anche di verificare come su questi livelli sia possibile agire in modo efficace, semplice e diretto, ad esempio tramite: il controllo fine dei movimenti corporei; l’attività fisica di media intensità, così come quella che alterna sforzi brevi e intensi a momenti di recupero; l’alternanza di attivazione tra emisfero destro e sinistro e di differenti aree cerebrali tramite movimenti incrociati e di coordinamento complesso; un’alimentazione anti-infiammatoria; attività come meditazione, yoga, tai chi.

    4. Impotenza Vs Controllo

    Un punto molto importante riguarda il passaggio dall’impotenza al potere e controllo. Come abbiamo visto l’esperienza di non poter fare nulla per evitare l’evento traumatico o per affrontarlo, gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di successive problematiche. L’impotenza non è solo un vissuto psicologico, nasce ancora prima come incapacità fisica di affrontare il problema.
    Questi processi presentano anche forti correlati emotivi (passando continuamente dalla rabbia, alla paura, alla tristezza), che vengono esperiti sia verso la causa dell’evento traumatico, ma anche nei confronti di altre persone coinvolte e, ovviamente, sé stessi.
    Nel processo normale di sviluppo – non solo rispetto agli eventi traumatici – la sicurezza in sé stessi, l’autonomia, il senso di auto-controllo e quello di padronanza si sviluppano attraverso l’attività fisica, il controllo del corpo, le dinamiche relazionali di sfida costruttiva o di cooperazione, la modulazione attiva in base al contesto e ai feedback delle proprie risposte emotive. Ancora a maggior ragione sarà fondamentale riattivare e riallineare queste abilità e competenze nei soggetti traumatizzati.

    24 maggio 2020

    Quando perdi qualcuno non è come quando perdi qualcosa. Le persone che non ci sono non hanno un posto. Non puoi ripercorrere il percorso fatto fino a quel punto per ritrovarle. Nessuno può’ restituirti quella persona e nemmeno risarcirti il tempo che perderai provando a distrarti. Avevo quattordici anni e nessuno mi aveva spiegato che a volte non si ha il cuore per farlo. Che ricominciare non inizia in un luogo o con una presa di posizione, che quando avrai voglia di provarci, penserai “Non cambierà niente” e abbasserai gli occhi cambiando direzione. Provavo fortissime emozioni ma avevo disimparato la capacità di esprimerle. Mi capitava raramente di urlare, piangere o perdere il controllo come tutti gli altri. Per me era sufficiente constatare in silenzio ogni cosa. Sentivo solo le finestre che si aprivano per curiosare chi c’era quando camminavo la notte. Parlarsi al telefono, nonostante ci raccontassimo tutto era più un modo per dirsi “Non ti ho ancora dimenticato “. Non ringrazierò mai ciò che non mi ha ucciso, ciò che avrebbe dovuto fortificarmi. Debole, ma con meno mancanze, avrei scelto se avessi potuto. Per una volta avevo creduto che sarebbe stato facile ma mi ero sbagliato. Noi non eravamo la strada e né i marciapiedi del nostro quartiere quando fuori pioveva.
    Noi eravamo la pioggia , le gocce che il giorno dopo non c’erano più.
     

    Tratto da - Non ho mai avuto la mia età.

    21 maggio 2020

    “Sapere dove è l’identità è una domanda senza risposta.”
    (José Saramago)

    La parola identità può essere seguita da differenti aggettivi: c’è un’identità personale, individuale, una sociale, una culturale, etnica, artistica, e via dicendo. Come vedremo, l’identità è il risultato di diverse dimensioni, da quella personale a quella sociale, da quella individuale a quella relazionale, e le ingloba tutte e in misura differente ogni qualvolta si assume un punto di vista diverso. Secondo la definizione di U. Galimberti (1999) “In psicologia, con questo termine s’intende l’identità personale, ossia il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre.”. La psicologia ha sostanzialmente accolto le riflessioni filosofiche di J. Locke e D. Hume, secondo i quali l’identità è un meccanismo psicologico. Non è semplicemente un dato da ritrovare nell’Io, ma una costruzione della memoria, nel senso che il fondamento dell’identità sta nella relazione che la memoria instaura tra le impressioni, che mutano continuamente, il presente e il passato. Si parla di crisi d’identità quando questa costruzione non risulta abbastanza solida. L’identità non si avvale solo però di una memoria individuale, ma anche di una memoria collettiva.
    Il primo psicologo che ha affrontato questo tema in modo sistematico è stato W. James (1890), apportando una metafora molto bella ed esplicativa. Secondo James l’identità è un “torrente” ed ha:


    • confini distinti, ben delineati nei confronti dell’ambiente che lo circonda
    • continuità nella direzione
    • autonomia, si muove sotto il proprio peso ed impeto
    Ecco i primi due aspetti già trovati prima più un nuovo aspetto importante dell’identità; se uno di questi tre viene meno si può entrare in una sensazione di paura, disagio, e passare dal panico ad un senso di depersonalizzazione, come avviene per esempio quando si ha la sensazione che forze esterne guidino le nostre azioni e i nostri pensieri, oppure quando ci ritroviamo imprigionati in ruoli che sono in contrasto con i nostri valori o ideali.
    All’inizio del secolo si erano creati due filoni di ricerca: uno che faceva prevalere il carattere sociologico, indagando dall’esterno le identità (individuali, di gruppo, familiari, ecc…) e le influenze che possono avere su di essa la cultura e l’ambiente; e un altro a carattere psicologico, che dava maggiore attenzione agli aspetti interni.
    Il sociologo E. Goffman (1963) propose una distinzione tra un’identità esistenziale ed una sociale: la prima è ben nota e conosciuta dal soggetto, mentre la seconda è quell’identità che si assume davanti al mondo. Immaginando la vita come un teatro, un insieme di ruoli, ogni persona dovrebbe in un certo qual modo recitare di fronte al mondo. L’attore possiede ad ogni modo la capacità di osservarsi dal fuori, quindi anche di distanziarsi dai ruoli che recita. Se esiste questa possibilità è perché, per Goffman, ci muoviamo ad un doppio livello, appunto quello di due identità.

    Fu proprio uno dei creatori della psicologia sociale, G. Mead, ad evidenziare le prime difficoltà per una distinzione precisa tra personale e sociale con una concezione interazionista, secondo la quale entra in gioco una dialettica tra le diverse rappresentazioni, psicologiche e sociali: quella del soggetto che percepisce se stesso e gli altri; quella degli altri che percepiscono il soggetto e fungono per lui da feedback; e quella del soggetto che s’immedesima nel punto di vista degli altri facendo in modo che si crei un quadro di norme generali. Compare quindi quella figura che Mead definisce l’”Altro Generalizzato”, la capacità di interiorizzare norme e valori della collettività, che si ha soltanto guardandosi con gli occhi dell’altro, un processo quindi soggettivo ma che non può prescindere dall’altro e dal contesto di relazione.
    Sulla scia di Mead si inserisce anche lo psicoanalista E. H. Erikson. Nell’ambiente della psicoanalisi Erikson è stato colui che più ha adottato un orientamento marcatamente socioculturale, interessandosi all’interazione dinamica tra sviluppo individuale e sistemi socioculturali, nonché al concetto di identità vista come “insieme di caratteristiche psicologiche generali che permettono di affrontare i compiti evolutivi fase-specifici lungo l’intero ciclo di vita dell’uomo” (Galimberti, 1999). L’identità quindi svolge un ruolo fondamentale per tutto il corso della vita di un uomo, non risulta mai definitiva ma piuttosto la si può pensare come ad un processo e secondo Erikson diversi aspetti dello sviluppo dell’Io possono essere formulati in termini di crescita del senso di identità. Questo sviluppo ha delle fasi cruciali e sono cosi anche in parallelo con l’identità che attraversa diversi periodi di rottura con il passato e di crisi in cui si vivono fasi di vulnerabilità, ciascuna delle quali però ricca di potenzialità per il futuro, in senso di cambiamento e trasformazione. La più importante di queste crisi nell’età evolutiva è la crisi d’identità dell’adolescenza, che ha una lunga durata, accompagna la persona durante tutta l’adolescenza e dà luogo ad una profonda trasformazione, sia fisica sia psicologica. Questa crisi non sfocia in ogni caso in soluzioni finali, e possono anche perdurare nell’individuo maturo alcuni aspetti problematici.

    Parlare d’identità presuppone per forza che si parli anche d’identificazione. Molti dei problemi dell’identità si decidono a livello d’identificazione, ad esempio con le figure parentali che offrono il primo modello per la costruzione della propria identità. L‘identificazione è un “termine psicoanalitico che designa il processo con cui un soggetto assimila uno o più tratti di un altro individuo modellandosi su di lui.”. (Galimberti, 1999). L’identità non viene più intesa solamente come semplice espressione della propria personalità. Freud distingue un’identificazione primaria, in cui l’individuo deve ancora distinguere la sua identità da quella degli oggetti e deve acquistar senso la distinzione Io e Tu (questa è l’identificazione che caratterizza la prima infanzia, soprattutto la relazione con la madre che il bambino inizialmente non avverte come altro da sé), dall’identificazione secondaria, che è invece successiva alla distinzione Io e Tu. Le identificazioni portano quindi il soggetto anche a confrontarsi con le figure importanti e carismatiche della propria esistenza, con gli altri e con il proprio sistema socioculturale in cui si è inseriti, facendo acquisire all’identità un maggiore rilievo relazionale e sociale. Normalmente può essere riscontrata in diverse maniere: come un processo per l’acquisizione di ruoli sociali, assumendo come detto i tratti del comportamento degli adulti nell’infanzia, o delle persone che si ammirano nell’età adulta; come uno strumento per accrescere la propria autostima comportandosi come se si fosse la persona con cui ci si identifica; nel gruppo come identificazione in conformità a ideali e interessi comuni. Non sempre però tutte le forme di identificazione vengono vissute positivamente dal soggetto, che si vede spesso costretto a farne uso date particolari situazioni problematiche. Una di queste forme d’identificazione, che ritroveremo più avanti, è quella introdotta da A. Freud, l’identificazione con l’aggressore, dove il soggetto tende ad assumere la stessa funzione aggressiva, imita i tratti e adotta le espressioni di potenza che caratterizzano figure percepite come aggressive dal soggetto (questo può accadere per esempio in presenza di sistemi socioculturali diversi dove ci si può sentire facilmente discriminati ed emarginati). In ogni caso “Identificarsi con qualcuno è come compiere un’esplorazione dell’altro. Questo viaggio è utile in alcuni momenti o periodi della vita, nell’infanzia addirittura indispensabile.”. (A. Oliverio Ferraris, 2002)
    C. G. Jung introduce anche il concetto di un’identità inconscia, differenziandola dall’identità conscia dove il soggetto riflette sulla propria continuità temporale e sulla sua differenza dagli altri. Nel caso invece dell’identità inconscia viene a mancare la autocoscienza che è presente nell’identità conscia e la distinzione psichica tra il sé e gli oggetti esterni. In proposito Jung scrive che «nella partecipazione mistica dei primitivi, nello stato mentale della prima infanzia e nell’inconscio dell’uomo civilizzato e adulto […] l’identità consiste innanzi tutto in un’uguaglianza inconscia con gli oggetti. Essa non è un’equiparazione, un’identificazione, ma un’uguaglianza data a priori che non è mai rientrata nell’ambito della coscienza. Sull’identità si basa l’ingenuo pregiudizio che la psicologia dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che dappertutto valgano gli stessi motivi, che ciò che piace a me debba ovviamente piacere anche agli altri. […] L’identità si rivela in modo particolarmente perspicuo in casi patologici, per esempio nel delirio paranoico di riferimento nel quale viene presupposta come cosa ovvia negli altri l’esistenza del proprio contenuto soggettivo.» (Jung, 1921)
    Con questa breve esplorazione attraverso contributi di carattere filosofico, psicologico o sociale, otteniamo una sostanziale descrizione di che cos’è l’identità: una dimensione psichica complessa; un processo sempre in atto; un insieme e allo stesso tempo sintesi tra memorie, immagini, rappresentazioni, percezioni. Le nostre, quelle degli altri e quelle collettive.
    “L’identità è come la pelle che ci ricopre: impossibile farne a meno, perché segna il confine tra l’interno e l’esterno di noi, ci definisce e [nello stesso tempo] ci consente di entrare in relazione col mondo.”. (A. Oliverio Ferraris, 2002)

    15 maggio 2020

    Perché si corre?

    Alla prima maratona organizzata in Francia nel 1975 erano iscritti 130 partecipanti. Nel 2015 alla partenza della maratona di Parigi erano più di 40 000. Durante una sola generazione, la corsa podistica è diventata un fenomeno di massa.
    Dal jogger domenicale ai praticanti dei grandi percorsi estremi (i 160 km del giro del Monte bianco), cosa rincorrono tutti costoro? Perché tanta passione per il podismo? Varie spiegazioni cercano di chiarire il fenomeno.
    RITROVARE LE PROPRIE RADICI (psicologia evoluzionista)
    Gli esseri umani sono “nati per correre”: è quanto sostengono alcuni autori, come Christopher McDougall (Born to run, 2009) e Bernd Heinrich (Why we run. A na- tural history, 2007). La tesi si basa sull’argomento che i cacciatori paleolitici dovevano correre per catturare la preda. La caccia per sfinimento praticata da molte tribù consiste nello stancare certe prede che, come le antilopi, sono molto veloci ma non resistono allo sforzo prolungato. Correre sarebbe quindi un istinto naturale (i bambini amano correre) inibito dalla vita sedentaria, che oggi riprende i suoi diritti. Correre sarebbe un modo per ritrovare le nostre radici arcaiche di cacciatori: una “moda paleolitica”, secondo la psicologia evoluzionista.
    FARSI DEL BENE (psicologia della salute)
    Molti cominciano a correre per perdere peso o per combattere lo stress. La ricerca del benessere sarebbe quindi la motivazione principale per indossare le scarpette e mettersi a correre. La ricerca medica in effetti conferma che lo sport ha effetti benefici, sia fisici che psicologici. L’attività fisica protegge dall’obesità e da numerose malattie, migliora il sonno e procura uno stato generale di forma. Dal punto di vista mentale correre, ma anche semplicemente camminare, è un efficace antistress e riduce l’ansia. Infine, studi recenti mostrano anche che la corsa migliora le prestazioni cognitive e contribuisce a ridurne il declino con l’età.
    CORRERE CON GLI ALTRI E CONTRO GLI ALTRI (sociologia dello sport)
    La socievolezza è una motivazione potente della pratica sportiva. Tutti coloro che fanno sport sanno che in compagnia è più facile perseverare a lungo in un’attività. L’allenamento regolare è stimolato dall’emulazione che nasce nei circoli e nelle uscite di gruppo. Correre insieme è anche un’occasione di parlare, ridere, divertirsi. Ma è anche l’occasione per confrontarsi e sfidarsi. L’etnologa Martine Segalen, nel suo libro Les entants d’Achille et de Nike (1995), descrive la socialità dei corridori di fondo, i loro rituali (dalla scelta della tenuta alla doccia), l’ebrezza della competizione, la convivialità dei gruppi di amici che condividono la stessa passione.
    SUPERARE SE STESSI (filosofia della corsa)
    La corsa di fondo è una prova che esige sforzo e sofferenza. Può sembrare assurda se si misura la fatica con il risultato ottenuto: nessun guadagno se non simbolico e di valore esclusivamente soggettivo (record personale, classifica). Da dove nasce allora questo bisogno di farsi del male per ottenere scopi così risibili? Etica della performance in personalità ascetiche? Volontà di potenza? Visione eroica dell’esistenza? Ricerca quasi mistica del superamento di sé? Filosofi e scrittori si sono interrogati sulle motivazioni profonde della corsa podistica (si veda la Petite bibliothèque du coureur, di Bernard Cham-Baz, 2014). C’è anche una dimensione esistenziale nella corsa, dove anima e corpo intrecciano uno strano dialogo (Courir. Méditations physiques, di Guillaume Le blanc, 2012), quando una parte di sé impone al corpo di ignorare il dolore e la stanchezza per continuare a correre (Haruki Murakami, L’arte di correre, trad. it. 2013).

    12 maggio 2020

    Pronto, chi parla?




    Negli Stati Uniti il telefono è entrato nelle vite quotidiane delle persone all’inizio del novecento. All’epoca nessuno sapeva esattamente come si usava. L’inventore scozzese Alexander Graham Bell voleva che si cominciassero le conversazioni dicendo “Ahoy-hoy!”, mentre la At&t voleva che le persone evitassero di dire “pronto”, perché riteneva che fosse scortese.
    Quando il telefono squillava, comunque, c’era un solo imperativo: bisognava rispondere. Era un pensiero che permeava la cultura di tutti, adulti e bambini. In un cartone animato concepito per insegnare ai bambini l’uso del telefono, Hello Kitty sta giocando quando si sente uno squillo. “È il telefono. Evviva!”, dice. “Mamma! Mamma! Suona il telefono. Sbrigati! O riagganceranno”.
    Quando ancora non era possibile vedere l’elenco delle chiamate perse, o non esisteva la funzione per richiamare l’ultima persona che ti aveva telefonato, se non rispondevi in tempo non c’era nulla da fare: dovevi aspettare che ti richiamasse. E se quella persona aveva qualcosa di veramente importante da dirti? Perdere una chiamata era terribile. Sbrigati!
    Non rispondere al telefono era maleducato e anche un po’ inquietante, come ignorare qualcuno che bussa alla porta. Per questo rispondere era una consuetudine universale.
    Frammenti sonori
    Personalmente non credo che ci sia bisogno di tornare allo stato originario della cultura del telefono. Si tratta semplicemente di qualcosa che è esistito, come i licheni cresciuti sulle rocce della tundra o i batteri che s’impadroniscono di un frutto caduto da un albero. Il motivo per cui m’interessa scavare in questo strato culturale è perché sta sparendo. Nessuno risponde più al telefono. Anche molte attività commerciali fanno tutto il possibile per evitare di rispondere.




    Delle circa cinquanta telefonate che ho ricevuto nell’ultimo mese, avrò risposto a quattro o cinque. Uno dei motivi è che oggi abbiamo più modi per comunicare. I messaggi di testo e le loro alternative multimediali sono meravigliosi, perché mescolano parole con emoji, gif, foto, video, link. Mandare messaggi è divertente, leggermente asincrono, e si può comunicare con più persone contemporaneamente.
    Questo tipo di comunicazione ha l’immediatezza di una telefonata, ma non esattamente. Usiamo Twitter, Facebook, Slack, l’email, le chiamate su FaceTime e riceviamo continuamente le notifiche. Quest’abbondanza di suoni ha reso obsolete le suonerie del telefono.
    Ma c’è un altro motivo per cui, ultimamente, reagisco con sospetto allo squillo del telefono. La maggior parte delle telefonate che ricevo sono spam. Ci sono le telefonate robotizzate con messaggi preregistrati. Ci sono i cibervenditori dei call center, che leggono frammenti sonori preregistrati per simulare una conversazione. Ci sono le telefonate il cui unico obiettivo è verificare che il numero sia attivo. Sono almeno dieci anni che la Commissione federale statunitense per le comunicazioni cerca di limitare le telefonate robotizzate, ma non sembra aver invertito la tendenza.

    Spesso, quando faccio l’errore di rispondere al telefono, parte un messaggio registrato

    YouMail è un’app per bloccare le chiamate di questo tipo, e crea una stima di quante telefonate robotizzate si fanno ogni mese. Le cifre sono impressionanti: nell’aprile del 2018 negli Stati Uniti sono state 3,4 miliardi. Le macchine, almeno quei software che possono digitare numeri di telefono, sono economiche. Non si ubriacano, non smettono di lavorare per riprendere gli studi e non hanno figli malati. Semplicemente chiamano, chiamano e chiamano ancora.
    Spesso, quando faccio l’errore di rispondere al telefono, non sento altro che silenzio, magari solo per alcuni secondi, il tempo di far intervenire una persona. O forse, se non dico niente, il silenzio dura per un tempo più lungo, finché la macchina non riattacca. A volte parte un messaggio registrato. E la cosa peggiore è che quando rispondo faccio sapere a uno spammer che il mio numero è attivo, un’informazione che rivenderà al prossimo spammer.
    Ad aprile ci sono state 3,4 miliardi di telefonate simili. Ogni volta una persona ha dovuto decidere se rispondere o lasciar perdere, accettando il cambiamento.


    (Traduzione di Federico Ferrone)