3 aprile 2020

Ansia anticipatoria

"E se domani lui mi lasciasse?" "E se perdessi il lavoro?" "E se domani non passo l’esame?" " E se non arrivo in tempo?" Ecco alcune domande, reiterate e angoscianti tipiche di chi soffre di una forma d’ansia fra le più fastidiose: l’ansia anticipatoria. Chi ne è vittima vive proiettato costantemente nel futuro e non riesce a godere mai del momento presente con armonia: ci sarà sempre una preoccupazione a rendere agitate le sue giornate. Due sono i fattori che entrano sempre in gioco quando parliamo di ansia anticipatoria:
  • un'allerta costante
  • un senso dell’attesa distorto

L'ansia ha una base biologica: si chiama... paura!

L'allerta costante deriva da un fattore evolutivo: sin dagli albori della nostra comparsa sulla Terra, siamo stati “programmati dalla natura” a essere costantemente vigili, vista la quantità di pericoli che gli uomini, per centinaia di migliaia di anni, hanno dovuto affrontare ogni giorno. Vista così, l’ansia anticipatoria sembra assomigliare a una forma di difesa "di specie", ma in realtà quella che proviamo oggi ha ben poco a che vedere con la paura che attanagliava i nostri antenati. Loro erano alle prese con un mondo selvaggio e ostile, noi viviamo esistenze incomparabilmente più sicure, anche se non ci facciamo caso.

L'ansia anticipatoria è un problema di controllo

L’ansia anticipatoria contemporanea è sostanzialmente un fatto mentale, una forma ipertrofica di controllo tipica del mondo moderno. Chi ne soffre vorrebbe avere costantemente in mano ogni aspetto della sua vita, ma con gli eventi futuri è impossibile e così si crea la distorsione del senso dell’attesa di cui abbiamo accennato qualche riga sopra. Del resto, anche da un punto di vista collettivo, attendere non fa più parte del quotidiano: un tram che tarda 4 minuti diventa una specie di dramma, al ristorante tutto deve arrivare in tempi record, la fila alle poste non avanza mai e gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

Il perduto senso dell'attesa

Eppure l'esperienza dell’attesa di qualcosa che deve arrivare fa parte della nostra storia da sempre; non a caso, tutte le religioni assegnano grande importanza alla capacità di attendere, dell'uomo di fede. Senza scomodare i massimi sistemi, la semplice attesa del tramonto in una sera d’estate con l’innamorato al fianco, l’attesa del Natale di quando eravamo piccoli, o dello scoccare della mezzanotte a capodanno da ragazzi, sono esempi che dovrebbero ricordarci quanto l'attesa abbia un valore intrinseco per le vite di tutti, "preparazione simbolica" a quel che accadrà dopo. Purtroppo, una società ipercinetica come la nostra è un terreno fertile per l'insorgere di una patologia come l'ansia anticipatoria.

Ansia anticipatoria: i sintomi

Spesso, per chi soffre di ansia anticipatoria, la vita si trasforma in una tortura autoinflitta: mani sudate, battito accelerato del cuore, e tremori sono fra i sintomi più diffusi, ma ce ne sono altri, sia mentali che fisici. Ecco i principali:
  • irritabilità e fretta costanti
  • visione pessimistica del futuro
  • umore ballerino
  • senso di colpa
  • senso di impotenza
  • tristezza
  • preoccupazione costante
  • stanchezza costante
  • disturbi allo stomaco
  • cefalee frequenti
  • insonnia
  • stanchezza cronica

Come combattere l'ansia anticipatoria

Come tutte le forme d'ansia, anche questa va affrontata con le "armi giuste", che sono quelle della cedevolezza, della resa e dell'accoglimento del sintomo. L'ansia, che in superficie ha sempre a che vedere con un bisogno supposto ed erroneo di controllo, nel profondo è un preciso richiamo dell'anima, che ci vuole avvisare che stiamo vivendo come in due universi paralleli: il corpo nel presente, la mente nel futuro. Così non va: recuperare l'unità psicosomatica è ciò che vuole il nostro mondo interno, l'ansia anticipatoria è solo l'aspetto esteriore, sintomatico di questa necessità profonda.
Per superarla ci possono utilizzare alcune tecniche psicologiche di tipo immaginativo o intraprendere dei percorsi volti a raggiungere uno stato di consapevolezza cedevole: a volte ci si può riuscire da soli, a volte serve un percorso di psicoterapia, mentre il trattamento con gli psicofarmaci, specie gli ansiolitici ma anche gli antidepressivi, è opportuno solo nelle rare forme invalidanti e dietro prescrizione medica, sempre a fianco di una psicoterapia e sospeso il prima possibile. Un fatto è certo: quanto più una persona è in grado di accogliere con cedevolezza il disagio, tanto più velocemente se ne andrà. Una regola universale alla quale non sfugge l'ansia anticipatoria.

28 marzo 2020

Girare e rigirarsi

In pace mi coricherò e in pace dormirò, perché Tu solo, o Signore, mi fai abitare al sicuro. Salmo 4:8
Cosa ti tiene sveglio di notte? Recentemente ho passato la notte in bianco, a girarmi e rigirarmi nel letto nel tentativo di trovare una soluzione ad un problema. Solo che poi ero talmente stanco da non riuscire ad affrontare la sfida del giorno dopo!
Ti suona familiare? Relazioni turbolente, un futuro incerto, o qualunque cosa sia, tutti noi ci arrendiamo alla preoccupazione, prima o poi.
Il re Davide era chiaramente in difficoltà quando scrisse il Salmo 4. C’era gente che cercava di rovinargli la reputazione con accuse senza fondamento (v. 2). Alcuni stavano mettendo in dubbio la sua abilità di governare (v. 6). Probabilmente Davide provava rabbia nel ricevere un trattamento tanto ingiusto. Di certo restava sveglio di notte a pensarci. Eppure leggiamo queste parole sorprendenti: “In pace mi coricherò” (v. 8).
Charles Spurgeon spiega in modo meraviglioso il verso 8: “In quel coricarsi … [Davide] si lascia andare nelle mani di un Altro; lo fa completamente e, nella totale assenza di preoccupazioni, si addormenta; ecco un esempio di fiducia piena”.
Quale era la fonte di questa fiducia? Fin dall’inizio Davide era certo che Dio avrebbe risposto alle sue preghiere (v. 3). Ed era sicuro che, avendo Dio scelto di amarlo, avrebbe anche provveduto ai suoi bisogni.
Che Dio ci aiuti a riposare nella Sua forza e nella Sua presenza quando le preoccupazioni ci minacciano. Nelle Sue mani sovrane e amorose, possiamo “coricarci e dormire”.
Caro Padre, grazie perché mi ascolti quando ti chiamo. Niente è troppo difficile per Te, e sono sicuro che farai sempre ciò che è meglio per me. Arrendo le mie preoccupazioni a Te, desidero riposare nella Sua forza e presenza.
Possiamo portare le nostre preoccupazioni ad un Dio pienamente affidabile.
Da Poh Fang Chia | ilnostropanequotidiano.org

25 marzo 2020

Gli (auto)inganni della bellezza

Siamo noi a vedere la BELLEZZA nelle cose – ad inventarla? Oppure invece esiste davvero, là fuori, indipendentemente dalla presenza di qualcuno ad osservarla e riconoscerla come tale? La fisica moderna sembra pensarla così: abbiamo spinto la conoscenza della natura fino al limite in cui gli esperimenti non riescono a tenere il passo delle speculazioni teoriche – non disponiamo ancora di tecnologie tanto avanzate da testare le relative ipotesi riguardo all’esistenza di dimensioni extra, universi paralleli, particelle supersimmetriche – , ma le teorie stesse hanno trovato nella bellezza una guida inaspettata – così irragionevolmente potente e provvidenziale da far sorgere il sospetto che essa rappresenti qualcosa di oggettivo riguardo alla realtà. Cosa intendono i fisici per bellezza di un modello matematico? SEMPLICITÀ, prima di tutto – intesa come relativa parsimonia di assunzioni alla base dello stesso, la quale a sua volta implica rigidità nei confronti di modifiche puntuali, garanzia, questa, di coerenza e falsificabilità. NATURALEZZA, poi – ovvero l’idea che tali assunzioni, a prescindere dal loro numero, non implichino rapporti adimensionali estremamente grandi o piccoli fra le costanti fisiche o i parametri liberi coinvolti, i quali richiedano spiegazioni elaborate (nel gergo tecnico: fine tuning) e non possano essere considerati semplicemente frutto di una selezione casuale. ELEGANZA, infine – qualificazione di difficile inquadramento per i non addetti ai lavori, riassumibile nella capacità delle equazioni di racchiudere in sé una fitta rete di relazioni non banali e spesso inaspettate, la cui portata vada ben oltre l’apparenza e le motivazioni iniziali. C’è una parola che riassume tutte queste caratteristiche: SIMMETRIA. La simmetria – che si applichi ad oggetti fisici o ad equazioni matematiche – è uno strumento naturale di generazione spontanea di complessità, struttura ed irriducibilità computazionale in regime di scarsità di informazioni e risorse disponibili, riuscendo a produrre abbondanza di effetti a partire da poche regole semplici; in quanto tale, però, incarna proprio la tendenza contraria – alla semplificazione, cioè, comprimendo e nascondendo questa stessa complessità che genera, criptandola in enti che, visti come black boxes, si caratterizzano di interazioni più semplici, codificabili in leggi matematiche che consentano capacità predittive, esplicative e decisionali. Simmetrie opportune sono inoltre in grado di rendere una teoria più naturale, provvedendo meccanismi di compensazione e regolazione spontanea. Infine, in arte come in fisica la simmetria è emblema di eleganza, proporzione, misura.
Perché, dunque, identifichiamo la bellezza col concetto di simmetria? Perché la simmetria è INVARIANZA e conservazione, laddove potrebbe esserci imprevedibilità ed ‘orrido caso’. ‘Cambiamento senza cambiamento’: questa l’espressione molto bella usata dal Nobel Frank Wilczek. In qualsiasi forma si manifesti, questa proprietà di invarianza nei confronti di operazioni che potrebbero invece modificare le cose conferisce un senso di divina indifferenza – come avrebbe forse detto Montale – , elevando ciò che possa fregiarsi di tale qualità al di sopra delle contingenze e dei giochi del caso, in una sorta di DOMINIO ATEMPORALE. Se crediamo dunque che le simmetrie siano elementi fondanti della nostra realtà, possiamo anche credere che MUTAMENTO E TEMPO – COME ISTANZE ONTOLOGICHE – SIANO SOLTANTO ILLUSIONI, per quanto pervicaci. Einstein stesso sembrava aver sposato una simile visione verso la fine della propria vita, forse per il suo valore consolatorio. Noi fisici tendiamo ad isolare la fisica stessa dalle altre scienze, ma se per un attimo la reimmettessimo nel pool ci renderemmo conto che la bellezza che le associamo deriva – ancor prima che dalle specificità delle singole teorie – dal suo stesso carattere matematico: le strutture matematiche, nella loro perfezione e atemporalità, rappresentano infatti un riparo psicologico ideale contro l’inconoscibile che si cela nel nostro futuro – la morte imminente, nel caso di Einstein. E cosa c’è di più perfetto di una simmetria, a questo scopo? Eccola, LA VERA NATURA DEI NOSTRI CRITERI ESTETICI: PAURA DELL’IGNOTO, BISOGNO DI PREVEDIBILITÀ.
Alcuni – molti, in verità – sosterrebbero che il messaggio della fisica moderna andrebbe preso al suo face value: la realtà è matematica, le simmetrie sono reali, il resto sono illusioni. D’altronde, è dai tempi di Pitagora che l’uomo nutre reverenza per l’astrazione matematica: il suo famoso teorema sui triangoli rettangoli stabilì un legame – ai tempi sorprendente – fra numeri (i prodotti più puri del pensiero matematico), appunto, e misure di forme geometriche (le caratteristiche principali della realtà fisica, il cui accesso primario è attraverso l’estensione spaziale). Oggi, nell’era dell’information technology e del PARADIGMA COMPUTAZIONALE, questo legame sembra ancora più forte: ogni cosa – immagini, canzoni, conversazioni, film, libri, codici genetici – è rappresentabile con catene di 0 e 1, duplicabile e ripristinabile fedelmente. Quale prova migliore del credo pitagorico per cui tutta la realtà è composta solo ed esclusivamente da numeri? C’è però qualcosa che sfugge a questo schema: LE ESPERIENZE INDIVIDUALI – quelle sono perse per sempre. Il passato non è riproducibile, rivivibile: la coscienza è legata a doppio filo allo scorrere del tempo, ed esiste solo rispetto ad un presente in continuo e costante mutamento. Eppure, il tempo e la nostra percezione di esso potrebbero essere soltanto illusioni, fenomeni che hanno un senso solo come qualificazioni delle interazioni e relazioni fra parti dell’universo, ma che lo perdono per l’universo nel suo insieme. Chi ci assicura, tuttavia, che si possa compiutamente parlare di una realtà indipendentemente da questa rete di relazioni? E se così non fosse, avrebbe ancora senso giudicare quella realtà come ‘vera’, e le relazioni che a tutti gli effetti la creano come ‘illusorie’. Questa domanda è anche alla base delle visioni relazionali della meccanica quantistica. In questo ambito, la DEFINITEZZA CONTRAFFATTUALE è l’espressione del pregiudizio circa la possibilità di creare una mappa matematica perfetta della realtà, minato alle fondamenta dalla contestualità quantistica, che instilla il dubbio sotto forma di DUALITÀ E COMPLEMENTARITÀ. Cos’è una simmetria matematica, in fondo? L’idea per cui possiamo guardare uno stesso panorama da infinite diverse prospettive, trovandovi comunque sempre tratti invarianti e su cui tutti concorderemo – dato che esprimono la realtà degli elementi oggettivi di quel panorama, indipendenti dal nostro modo di osservare. Se però non esiste osservazione senza disturbo, nessuna prospettiva potrà mai esaurire tutta l’esperienza della realtà, poiché quest’ultima non può altro che nascere dall’interplay fra tutti i possibili punti di vista, come risultato di un processo di GENERAZIONE DI CONSENSO MASSIMAMENTE DISTRIBUITO.
Una simmetria è una mappa di un bosco, che ne indichi chiaramente le strade percorribili, ma se non esiste più alcuna mappa né alcuna strada – se davvero la definitezza contraffattuale è un’illusione – non ci resta che addentrarci ed ESPLORARE, il che richiede tempo – TEMPO VERO, REALE, IRRIDUCIBILE. Non illudiamoci: serve coraggio per questo. Noi uomini siamo fatti così: costruiamo strade in mezzo ai boschi e ci sfrecciamo sopra, godendoci spensierati il panorama dal finestrino; poi di colpo un cervo salta fuori dalla vegetazione, ci finisce sotto le ruote e fine dei giochi. Ma – come nella nota pubblicità – NON È IL CERVO CHE CI TAGLIA LA STRADA, È LA STRADA CHE TAGLIA IL BOSCO. Siamo noi a voler creare certezze e garanzie di sicurezza in un mondo che non ne ha – salvo poi chiuderci nell’impotenza quando quello stesso mondo rivendichi la sua natura libera e selvaggia, reclamando il proprio diritto a non corrispondere alle nostre ridicole aspettative. Avremmo dovuto essere degli esploratori, ma ci hanno insegnato a vivere come turisti – turisti nella nostra stessa vita, l’unica vita che avremo mai a disposizione. Ed eccoci qui, a testa bassa, rimuginando su tutto ciò che è andato storto – tutti i cervi che nostro malgrado abbiamo investito, tutte le cose belle che abbiamo distrutto per noncuranza, difetto di coraggio o semplice distrazione – , incapaci di vedere il dramma ben più grande che si consuma alle nostre spalle – tutta la ricchezza, nascosta nel bosco, che ci stiamo perdendo rimanendo sulla strada, e di cui siamo semplicemente inconsapevoli.
La bellezza che attribuiamo alla perfezione matematica ed alle sue simmetrie atemporali è quella del NIRVANA buddhista – un’ideale descrivibile solo per negazioni, in termini di assenza (di dolore e affanni, ma anche di gioia e passioni), lontananza (da tutto ciò che possiamo ritenere come ‘terreno’), distacco (da se stessi) ed isolamento (da tutti gli altri). Non è un caso, infatti, che il nirvana rappresenti la fine del ‘ciclo delle rinascite’, ovvero la fine del tempo, del suo scorrere e trascinarci. Ma questa perfezione è davvero realizzabile? E soprattutto: è davvero la più alta forma di FELICITÀ cui l’uomo possa aspirare? La contestualità quantistica comporta la realtà del tempo e l’immagine di una realtà in cui nessun elemento possa veramente isolarsi da tutti gli altri – una realtà che risulterà sempre imperfetta, secondo gli standard stringenti che una visione platonica o pitagorica richiederebbe. Eppure, questa è la realtà – e non c’è bisogno di scendere fino al livello quantistico. Questo PATTERN DI INTERDIPENDENZA si ripete ad ogni livello – in ottica emergentista – : LA REALTÀ IMPARA, continuamente e progressivamente, e lo fa attraverso la creazione di enti e simmetrie che celino la complessità sottostante; ma la complessità cresce a sua volta, continuamente e progressivamente, – cresce nel tempo e come manifestazione primaria di esso – così che lo stesso problema si ripropone al livello successivo, imponendo alla natura una forma di APPRENDIMENTO DINAMICO E GERARCHICO. Ad ogni livello, dunque, la natura autentica della realtà – in termini di relazioni ed interdipendenze – riemerge e si riafferma: essa è il SAMSARA, l’oceano dell’esistenza, e l’unico modo per gocce d’acqua quali noi siamo di non inaridirci è tuffarci in esso, perdendo la nostra identità individuale – la vera illusione – e comprendendo come RELAZIONI ED INTERDIPENDENZE siano non solo ineliminabili, ma la trama stessa del mondo. Esse forse lo rendono meno bello e perfetto – ne rompono la natura simmetrica – , ma così facendo ci costringono ad affrontarne il peso e, soprattutto, la RESPONSABILITÀ: quella di essere costantemente una parte attiva nella sua costruzione – di momento in momento e in vista di un futuro ancora tutto da scrivere – , e di non poter in questo prescindere dall’interazione con ogni sua altra parte – che siano gli altri individui o l’ambiente che ci circonda.

19 marzo 2020

Con Seneca nella città provvisoria

Proprio nei giorni più rabbiosi e desiderosi di vendetta, avrei avuto bisogno di lui, del mio mentore. Non sono mai riuscito a trovarlo, nonostante le mie attese ossessive, seduto su un gradino di sabbia della città provvisoria.

Niente. Non passavi mai. 

Mi hai fatto ingoiare fiele.

Hai trasposto, per giorni e giorni, il mio essere in un ambito prettamente umano, in cui tutti sono sempre irritabili e ostili; in un contesto esistenziale, dove sai che non mi sono mai, mai trovato a mio agio, fino ad allontanarmi completamente dal linguaggio degli altri, dal modo di fare, dalla loro essenza vuota. 

Seduto su questo scalino ti ho aspettato invano. 

Senza speranza, sono venuto via, convinto che la tua lezione era quella di lasciarmi solo, con la rabbia che mi esplodeva dentro. Volevi farmi capire che mi avevi insegnato già tutto per capire la sua origine, il suo potere di trasformare tutti noi in mostri. Mi avevi insegnato abbastanza per venirne a capo da solo. 

Sulla strada del ritorno, non ho trovato il ritorno.

Il varco che di solito mi si apriva da solo, nel momento stesso che volevo uscire dalla città provvisoria, non si apriva affatto.

Mi sono seduto di nuovo sulla sabbia, stanchissimo, e vedevo, sul crine delle colline di fronte, le tipiche case di sabbia di questo luogo ameno. Case di sabbia belle, lisce, vuote, apparentemente senza vita.

Distratto da questa linea geometrica, destinata a cambiare ogni giorno in funzione di come la guardiamo, mi sono assopito e sdraiato. Il vento caldo passava sopra la mia pelle abbronzata e piena di baci, di quando avevo venti anni.

Mi sono addormentato senza un’immagine finale.

Nel sonno è emerso tutto.

Hai insistito, perché scrivessi come si può placare l’ira, e mi pare che tu abbia buone ragioni di temere soprattutto questa passione che, più d’ogni altra, è spaventosa e furibonda. Le altre, a dir vero, hanno una componente di tranquillità e calma, questa è tutta eccitazione ed impulso a reagire, è furibonda e disumana brama di armi, sangue e supplizi, dimentica se stessa pur di nuocere all’altro, è pronta a precipitarsi immediatamente sulle armi ed è avida di una vendetta destinata a coinvolgere il vendicatore. 

Per convincerti che i posseduti dall’ira sono dei dissennati, osserva bene il loro atteggiamento: come sono sicuri sintomi di pazzia l’espressione risoluta e minacciosa, la fronte aggrottata, la faccia scura, il passo concitato, le mani irrequiete, il colorito alterato, il respiro frequente ed affannoso, tali e quali sono i sintomi dell’ira incipiente: gli occhi ardono e lampeggiano, il viso si copre di rossore per il rifluire di sangue dal fondo dei precordi, le labbra tremano, i denti si serrano, i capelli si drizzano ispidi, il respiro diventa forzato e rumoroso, le articolazioni schioccano tormentandosi, i gemiti e i muggiti si intercalano in un parlare che inciampa in voci mozze, le mani battono continuamente e i piedi percuotono la terra, il corpo è tutto eccitato e “scagliante grandi minacce d’ira”, i lineamenti sono brutti e spaventosi, quando un uomo si sfigura per corruccio.

Impossibile sapere se è un vizio più detestabile o schifoso. Tutti gli altri si possono nascondere o nutrire in segreto: l’ira si manifesta ed affiora sul volto e, quanto più è grande, tanto più apertamente ribolle. Non vedi come tutti gli animali, quando insorgono per nuocere, ne mostrano in anticipo i sintomi e tutto il loro corpo abbandona l’abituale comportamento di calma ed esaspera la connaturata ferocia? 

I cinghiali mandano spuma dalla bocca ed arrotano le zanne per aguzzarle, i tori danno di corno nel vuoto e spargono l’arena battendola con l’unghia, i leoni fremono, i serpenti, quando s’adirano, gonfiano il collo, le cagne rabide hanno aspetto minaccioso: non c’è animale tanto orribile o dannoso per natura, nel quale non appaia, al sopravvenire dell’ira, un nuovo aumento di ferocia. 

Certo, non ignoro che è difficile anche nascondere le altre passioni, che la libidine, il timore, l’audacia mostrano i loro sintomi e si possono conoscere in anticipo: non c’è, di fatto, nessun sconvolgimento interiore d’una certa violenza, che non alteri qualcosa sul nostro viso. Che differenza c’è, allora? Le altre passioni si notano, questa risalta.

Osserva le fondamenta di città notissime, ormai quasi invisibili, come questa  città di sabbia su cui sei sdraiato e dormi: le ha abbattute l’ira; osserva tanti deserti, disabitati per miglia e miglia: li ha spopolati l’ira; osserva tanti condottieri, passati alla storia come esempi di un destino fatale: l’ira ne ha trafitto uno sul suo letto, ne ha ucciso un altro a mensa, tra le sacre leggi dell’ospitalità, un altro lo ha fatto a pezzi durante il processo, sotto gli occhi della folla che riempiva il foro, un altro lo ha costretto a versare il suo sangue ad opera di un figlio parricida, un altro ad offrire la sua gola regale alla mano di uno schiavo, un altro a divaricare le sue membra su di un patibolo. 

E sto ancora narrando supplizi di singoli: che sarà, se vorrai tralasciare i casi in cui l’ira è divampata su individui e guardare intere assemblee passate a fil di spada, plebi trucidate da incursioni di soldatesche, interi popoli mandati a morte senza distinzione alcuna… 

L’ira che tu provi non ha senso pensare se è giustificata o no. Ai miei occhi e ai tuoi di quando ne parlavamo, così azzurri e assetati di concetti, l’ira di qualsiasi origine, è paragonabile a quella dei bambini che, se cadono, vogliono che si batta la terra e spesso non sanno nemmeno con chi si adirano: si adirano e basta, senza un motivo, senza essere stati ingiuriati, ma non senza una parvenza di ingiuria ed un desiderio di castigo. Perciò vengono ingannati con le finte percosse e placati con le false lacrime di scusa: una vendetta inconsistente pone fine ad un rancore inconsistente.


di Stefano Michelini

10 marzo 2020

Giorno per giorno

Viviamo in tempi dove le persone sono combattute e dove le macerie sono molte, la società vive sotto una cappa d’incertezza e le prospettive lavorative ed economiche sono difficili.
La paura e l’ansietà stanno legando milioni di persone in tutto il mondo!
Vi è un bisogno molto forte nell’intimo dell’uomo che deve essere nutrito e curato solo dalla parola di Dio.
Matteo 4:4 Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio”».
Solo la Parola di Dio ha il potere d’incontrare il bisogno del nostro cuore e di fare una separazione da tutto ciò che è anima e spirito per raggiungere le parti più nascoste di noi.
Matteo 6: 33 Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più.
Questo versetto che ci chiama a dare valore le cose del Regno prima di qualsiasi altra cosa è il fondamento per arrivare ad essere liberati dall’ansietà e dalla paura.
Dio ci chiama a vivere giorno per giorno senza lasciati scoraggiare, confida in Dio e giorno per giorno lasciati sorreggere dalla potenza della sua Parola!
Matteo 6:34 Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Il processo di liberazione nasce da un amorevole comando, non vi è miracolo che non si poggi sulla Parola di Dio, è una parola di comando ed è una Parola di liberazione
Dio ti ha dato un valore, mentre la società rigetta e cerca di togliere ogni dignità, Dio continua a dare un valore al Suo popolo.
Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?
Isaia 43:4 Perché tu sei prezioso ai miei occhi, sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita.
Ecco un pilastro su cui fondare la nostra sicurezza, l’amore di Dio e la stima di Dio in Cristo, nonostante i nostri difetti abbiamo un valore per il Signore.
A Dio sia la gloria
Davide Ravasio | Notiziecristiane.com

7 marzo 2020

La persona assertiva

Sentiamo spesso parlare di assertività e di comportamento assertivo. Ma di cosa si tratta precisamente? Il termine “assertività” affonda le proprie radici nel latino asserere, ossia affermare e sostenere con vigore. In ambito psicologico il termine viene ripreso dall’inglese assertiveness, con il significato di efficacia personale e affermatività. Tuttavia, possiamo ricondurne le origini anche al verbo inglese to assert, che letteralmente significava mettere uno schiavo in libertà. A partire da queste diverse radici etimologiche del termine, possiamo in primo luogo dedurre che:
  1. L’assertività è la caratteristica di chi afferma e realizza se stesso, manifestando le proprie capacità e i propri talenti nel contesto sociale e professionale.
  2. Il comportamento assertivo ha a che fare con la condizione dell’essere liberi, non nel senso dell’affrancarsi da ogni vincolo o condizionamento, quanto piuttosto nella manifestazione di una scelta consapevole e responsabile.
I due psicologi statunitensi Robert Alberti ed Michael Emmons definiscono assertivo “un comportamento che permette ad una persona di agire nel suo pieno interesse, di difendere il proprio punto di vista senza un’ansia esagerata, di esprimere con sincerità e disinvoltura i propri sentimenti e di difendere i propri diritti senza ignorare quelli altrui”.
Quali sono le principali caratteristiche del comportamento assertivo? Eccone 5:
  1. Proattività. La persona assertiva si sente protagonista della propria esperienza di vita. La proattività, come sostiene Stephen Covey nel suo best seller The 7 Habits of Higly Effective People, rappresenta qualcosa di più del semplice prendere iniziativa. “Significa che, come esseri umani, noi siamo responsabili della nostra vita. Il nostro comportamento è una funzione delle nostre decisioni, non delle condizioni in cui viviamo”.
  2. Responsabilità. Il comportamento assertivo si caratterizza per un orientamento costante all’essere responsabili delle conseguenze delle proprie decisioni. Letteralmente, il termine responsabilità sta per “abilità di risposta”; ciò significa che un atteggiamento responsabile consiste nella capacità di scegliere la nostra risposta in ogni situazione. La psicologia dell’efficacia personale a tal proposito introduce il concetto di locus of control. Ognuno di noi tende a porre il proprio punto di controllo in due possibili posizioni: all’interno o all’esterno. Il locus of control esterno è tipico di coloro che attribuiscono sempre a fattori esterni le cause dei propri insuccessi o dei propri fallimenti. Ogni volta che subentrano delle difficoltà si incolpa il destino avverso, la situazione sfavorevole, oppure gli altri che non ci capiscono e che non ci supportano adeguatamente. Il locus of control interno, invece, caratterizza propriamente la personalità assertiva, che non cerca alibi, scuse o giustificazioni, ma ritiene se stessa responsabile diretta della propria condizione e dei propri risultati.
  3. Fiducia. La persona assertiva manifesta due tipi di fiducia: in se stessa e negli altri. La fiducia in se stessi è un fondamentale requisito di un buon livello di autostima. Un’adeguata considerazione di sé rappresenta un pilastro portante dell’assertività. Conoscersi a fondo, maturare un buon rapporto con se stessi, valorizzare le proprie qualità positive, individuando quelle aree di debolezza che possono diventare oggetto di un processo di miglioramento, sono aspetti basilari del processo di costruzione di una solida fiducia in se stessi. Un’autostima bassa porta ad assumere un comportamento remissivo in relazione agli altri. Un’autostima troppo elevata porta invece a manifestare un comportamento aggressivo. Sull’altro versante, concedere fiducia agli altri, con un atteggiamento di preliminare apertura, scevra da pregiudizi negativi e credenze limitanti, può esserci d’aiuto per interagire con maggior serenità ed efficacia in ogni contesto.
  4. Affermazione di sé. La natura dell’assertività si esprime nella capacità di affermare se stessi. Se il comportamento anassertivo si manifesta nella costante preoccupazione delle opinioni e dei giudizi altrui, l’assertività caratterizza la persona che ha sviluppato un proprio centro di esistenza, una dimensione flessibile ma al tempo stesso stabile della propria identità, in cui ritrovare i propri valori, le proprie convinzioni, le proprie esigenze. Affermazione di sé significa anche rimanere fedeli a se stessi, accettarsi per ciò che si è, pur nella certezza che si può sempre essere aperti al cambiamento e al miglioramento. Riconoscere e valorizzare la propria unicità porta ad abbandonare l’idea che il nostro comportamento debba ricercare ad ogni costo l’approvazione di altri.
  5. Comprensione. Uno dei grandi limiti del genere umano sta nell’etichettare le persone, emettendo spesso un giudizio “epidermico”, lasciandosi così condizionare dalla “prima impressione”. Il modello di comportamento orientato all’assertività suggerisce di guardare agli altri mostrando comprensione, cercando cioè di comprendere le ragioni di un determinato comportamento o atteggiamento. Perché l’altro dice queste cose, mostra questo atteggiamento o si comporta in questo modo? Rispondere a questi interrogativi, sospendendo inizialmente il giudizio, evitando di lasciarsi irretire da preconcetti e pregiudizi, rappresenta un buon modo per cercare di comprendere realmente i nostri interlocutori.
Apprendere e sviluppare un comportamento assertivo è possibile per tutti, attraverso impegno, sforzo e allenamento quotidiano. Nel contesto lavorativo attuale le competenze relazionali sono sempre più essenziali e imprescindibili per poter lavorare con soddisfazione, efficacia e successo. In tal senso, l’assertività rappresenta una modalità comportamentale che può garantirci un elevato livello di qualità nella costruzione, nello sviluppo e nel mantenimento delle relazioni che caratterizzano ogni giorno la nostra vita professionale.

26 febbraio 2020

Crescere nelle scarpe di qualcun altro

Non ho avuto molti rapporti con la famiglia di mio padre. La mia famiglia è sempre stata quella di mia madre. Da noi essere alla moda era una preoccupazione costante, viste le nostre origini aristocratiche. Il nonno era il fabbro del villaggio, e per qualche anno la nonna è stata una specie di sindaca della comunità rom. Il motivo era sicuramente il nostro sangue blu, non il fatto che fosse l’unica rom (termine corretto per zingara) che sapesse leggere e scrivere almeno un po’.
La sola foto che ho di loro è emblematica della passione della nostra famiglia per l’arte: i miei nonni se ne stanno seduti su due sedie eleganti in mezzo alla strada, nei loro vestiti migliori. I pantaloni di nonno hanno un risvolto in puro stile hipster e sono stretti alla vita con una corda, e la camicia è di un bianco impeccabile. La nonna indossa il suo vestito buono, e in testa non ha il fazzoletto. Nel nostro villaggio, nel 1975, era una cosa davvero rivoluzionaria. Sono entrambi scalzi, e alle loro spalle si vede una cavalla che pascola al bordo della strada e il cugino Nelu, artista e bohémien, tutto nudo: era estate, e nonna non passava certo tutto il giorno a lavare.
Mia madre ha ereditato il sangue blu dei miei nonni. Ha sempre avuto le idee molto chiare su come dovessimo vestirci. Ho il sospetto che fosse ispirata dall’abbigliamento dei funerali, altrimenti sarebbe difficile spiegare la sua passione per le scarpe di vernice e i vestiti neri nel bel mezzo dell’età dell’oro del comunismo. Il risultato è che ero lo zimbello di tutta Budrea, dove i bambini della mia età erano sempre nudi e scalzi, mentre io sembravo pronto a ricevere la visita della regina d’Inghilterra.
L’adolescenza e la mancanza di uno specchio avevano su di me un effetto spaventoso
L’inizio degli anni ottanta è stato un periodo molto difficile. Stavamo in nove in un appartamento di 58 metri quadrati. Gogu e papà erano alcolisti, zia Ana faceva la casalinga, e non avevamo un soldo. E se anche ne avessimo avuti, non ci sarebbe stato nulla da acquistare. Mamma comprava le scarpe facendo in modo che potessero andare bene al maggior numero di persone in famiglia.
Io, per esempio, ho avuto un paio di scarpe che erano state portate da mia madre, da mia sorella e da mio fratello. Mi piaceva un sacco giocare a pallone e, tornando a casa da scuola, prendevo sempre a calci qualche castagna o qualche sasso. Il risultato era che le mie scarpe avevano perennemente la suola bucata. La riparavamo con il nastro adesivo.
La mia uniforme scolastica era sempre pulita e perfettamente stirata e le mie camicie erano dure come il legno, a causa della passione di mia madre per l’appretto.
In quel periodo sono diventato celebre tra i ragazzi con cui prendevo l’autobus perché l’adolescenza e la mancanza di uno specchio avevano su di me un effetto spaventoso, che si manifestava anche nell’abbigliamento: mi capitava di indossare una scarpa elegante al piede sinistro e una da ginnastica al destro, o di sperimentare metodi mai visti per abbottonare le camicie.
La testa nel pallone
Giocavo molto a basket, ma le scarpe da pallacanestro esistevano solo nei miei sogni più scatenati. Le uniche cose che possedevo che gli somigliassero almeno un po’ erano delle scarpe da boxe. I miei amici, che occupavano tutti una posizione un po’ più elevata nella scala sociale, si mettevano a ridere quando mi vedevano giocare a pallacanestro vestito con un paio di mutandoni, la maglia bianca d’ordinanza e le scarpe da boxe.
Ogni tanto Edi, un mio compagno di classe, mi prestava le sue scarpe da ginnastica della marca tedesca Romika. Escluso il sesso, niente era paragonabile al piacere di correre con delle vere scarpe sportive ai piedi. Durante l’ultimo anno di liceo un giorno sono capitato per caso in un negozio di sport proprio mentre scaricavano le scarpe da basket. Erano bianche con una striscia bordeaux. Il paio più piccolo era numero 45. Io portavo il 41 e mezzo. Le ho comprate, ho messo del cotone all’interno per farmele andare bene e mi sono sentito finalmente molto fiero di me stesso.
Non sono più povero, ma non per questo mi sono convinto di discendere da una stirpe di principi
All’inizio degli anni novanta mia madre faceva le pulizie da una donna tedesca che lavorava nella fabbrica tessile della città. Aveva più o meno la mia taglia, e per qualche anno ho portato i vestiti che lei non indossava e che regalava a mia madre. Qualche volta è capitato anche che degli uomini ci provassero con me per il mio abbigliamento.
Ci ho messo anni a capire che i vestiti maschili non sono uguali a quelli da donna. Ma l’esperienza è stata utile per educarmi all’omofobia tipica della nostra cittadina. In seguito, ho cominciato a comprare i vestiti al mercatino dell’usato di Craiova, dove in realtà si trovavano soprattutto cose rubate in Germania.
Per anni ho giocato a pallacanestro con i boxer, pensando che fossero calzoncini. Anche il mio primo paio di vere scarpe da basket l’ho comprato di seconda mano, in un mercatino in Inghilterra. Erano delle Nike, pagate tre sterline. Con lo stesso entusiasmo con cui mettevo i vestiti della signora tedesca, indossavo anche l’unico abito in mio possesso, che però mi stava malissimo perché doveva andare bene anche a mio padre, il quale era cinque centimetri più basso di me e pesava 15 chili in più. Per un bel po’ di tempo ho comprato solo scarpe in svendita. A volte erano troppo grandi, altre volte troppo piccole. Ma l’importante è che erano scontate.
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Oggi mi vesto con maggiore cura, e credo di ragionare e di agire meglio rispetto a vent’anni fa. Il che non vuol dire che sono diventato un Coco Chanel. Non sono più povero, ma non per questo mi sono convinto di discendere da una stirpe di principi. Scrivo questo perché, negli ultimi tempi, ho visto un mucchio di idioti che, per il solo fatto di essere arrivati in tv o di aver conquistato qualche carica o qualche incarico pubblico, si sono convinti di essere diventati degli Einstein della politica, del giornalismo o della cultura.
Soprattutto, però, negli ultimi tempi mi sembra che il numero di questi Einstein sia cresciuto pericolosamente. Il fatto che io sia stato povero e che sia perfettamente consapevole delle stupidaggini che sono capace di dire, pensare e scrivere mi rende immune a questo terribile virus, che in Romania ultimamente sta mietendo sempre più vittime.
(Traduzione di Mihaela Topala)
Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.

17 febbraio 2020

Come superare il pessimismo patologico

Cerchiamo di evitare pensieri e frasi pessimistici come "la mia vita è un fallimento" o "è tutto inutile"!
«Il pessimismo è una scusa per non tentare e una garanzia per assicurarsi di fallire», Bill Clinton.
Pensare sempre al peggio non ci permette di migliorare la nostra qualità di vita, tutt'altro. Il pessimismo, infatti, è come una zavorra che trasciniamo giorno dopo giorno e che non ci permette di cambiare né di assaporare i momenti positivi della vita. Di per sé questo sentimento non è del tutto negativo in quanto, in alcuni momenti, può anche spingerci a migliorare e renderci più creativi.
Tuttavia, quando si trasforma in pessimismo patologico, ogni nostro pensiero si trasforma in distruttivo e ci fa entrare in un circolo vizioso difficile da interrompere. Se pensiamo sempre che qualcosa andrà male, è possibile che il nostro atteggiamento negativo sarà la causa stessa del fallimento. Perché siamo pessimisti? In generale, è una forma di difesa per evitare di soffrire nel caso in cui ciò che desideriamo non si realizzi. Può essere anche causato dalla paura di vivere qualcosa di nuovo. Il pessimismo patologico, infatti, non si presenta solamente quando le cose vanno già male, ma anche quando stanno andando per il verso giusto.
È possibile superare il pessimismo psicologico e la paura costante di fallire? La risposta è sì. Di seguito vi lasciamo alcuni consigli per riuscirci.
Evita i pensieri negativi ricorrenti
Cerchiamo di evitare pensieri e frasi pessimistici come "la mia vita è un fallimento" o "è tutto inutile". Crogiolarsi in questo circolo vizioso non fa altro che costruire le basi che ci porteranno al fallimento stesso, in quanto i pensieri negativi permettono di azzerare tutte le nostre qualità positive e la voglia di migliorare sé stessi.
Svolgi attività nuove
Per combattere il pessimismo patologico è preferibile svolgere attività nuove e che ci aiutino a essere positivi. È inutile continuare a guardare film o ascoltare musica tristi e drammatici. Diamo spazio anche alle commedie e alle attività divertenti: ci permetterà di vedere anche il lato positivo della vita.
Scegli persone positive
Per poter uscire dal circolo vizioso del pessimismo dobbiamo cercare di frequentare persone che apportino più felicità e pensieri costruttivi alla nostra vita. Evita di lamentarti costantemente con gli altri, altrimenti in questo modo non farai altro che rafforzare la tua negatività.
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Rivolgiti a uno psicologo
Quando il pessimismo si trasforma in patologico e minaccia la nostra qualità di vita, può essere utile rivolgersi a uno psicologo. Attenzione, però: il nostro scetticismo e la nostra negatività possono mettere in pericolo la terapia.
Non essere radicale
Chi è pessimista in maniera patologica, spesso, per risolvere la situazione passa a essere un ottimista convinto, senza prendere in considerazione tutti i pro e i contro della situazione. In realtà, dobbiamo abbandonare questa visione manichea: cerchiamo di affrontare la realtà con la giusta dose di ottimismo e di realismo.
Affronta nuove sfide
Abbandonare il pessimismo costante vuol dire avere il coraggio di affrontare la vita. Ciò vuol dire accettare i nostri errori e che non tutto possa andare sempre al meglio. Sbagli e vittorie ci aiutano a crescere e a superare le crisi senza nasconderci dietro il pessimismo.

11 febbraio 2020

Non piaccio a nessuno

Non c’è nessuno che mi riconosca. Ogni rifugio mi è venuto a mancare. Salmo 142:4
Da ragazzina, quando mi sentivo sola, rifiutata o dispiaciuta per me stessa, mia madre a volte cercava di tirarmi su il morale cantando una popolare canzoncina: “Nessuno mi ama, tutti mi odiano. Penso che andrò a mangiare vermi …” Dopo essere riuscita a farmi sorridere, mi aiutava a pensare alle tante persone speciali della mia vita e ai molti motivi che avevo di essere grata.
Quando leggo di Davide e della sua convinzione che nessuno si curasse di lui, posso capire cosa provava. Solo che Davide non esagerava affatto il suo dolore. La sensazione che provavo io è tipica di quella età, mentre Davide aveva un buon motivo per sentirsi abbandonato. Scrisse queste parole nel buio profondo della caverna in cui si era rifugiato per fuggire da Saul, che lo perseguitava con l’idea di ucciderlo (1 Samuele 22:1; 24:3-10). Davide era stato unto come futuro re di Israele (16:13), era rimasto per anni al servizio di Saul, ma ora era costretto a fuggire, temendo per la propria vita. Nella sua solitudine, Davide gridava a Dio chiamandolo il suo “rifugio”, “la mia parte nella terra dei viventi” (Salmo 142:5).
Come Davide, possiamo gridare a Dio quando ci sentiamo soli, dando voce ai nostri sentimenti pur restando al sicuro tra le Sue braccia d’amore. Dio non minimizza mai la nostra solitudine. Egli desidera stare accanto a noi nelle buie caverne della nostra vita. Anche quando pensiamo che nessuno si curi di noi, a Dio importa!
Signore, Tu sei il mio amico quando mi sento sola. Grazie perché sei con me nei luoghi bui della mia vita.
Dio è nostro amico nelle stagioni della solitudine.

2 febbraio 2020

Come costruire il presente

Molto spesso, anche quando ci pare di scoprirlo, il futuro in realtà lo inventiamo noi. Per esempio, mediante le profezie che si autoavverano.

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Blaise Pascal, da sottile osservatore dell’animo umano, scrive nei suoi Pensieri: «Affinché le passioni non ci nuocciano, dovremmo pensare di avere solo otto giorni di vita». Con questa sorprendente indicazione il grande persuasore crea uno scenario ove il futuro influenza il presente orientandolo verso l’essenziale della vita del soggetto messo di fronte alla sua imminente dipartita. Ovvero proietta una prospettiva che fa leva su un futuro a termine, tale da influenzare la persona a fare, in quei pochi giorni che le restano, le cose per lei davvero più importanti. 
BURATTINI E BURATTINAI
Questo espediente filosofico svela il potere del futuro immaginato sul nostro agire presente, mostrando come le nostre aspettative siano più influenti di qualunque altra forma di sentire e pensare. Difatti, noi tutti temiamo ciò che può accadere, non ciò che è già accaduto e, anche quando abbiamo vissuto qualcosa di davvero traumatico, ciò di cui abbiamo più paura è che possa riproporsi. In altri termini, al contrario di ciò che troppo spesso la psicologia tradizionale induce a pensare, il passato influenza il presente molto meno del futuro, perché è quest’ultimo che rappresenta anche la proiezione di ciò che ci ha già fatto soffrire e che temiamo si ripresenti.
La gran parte, poi, degli approcci psicoterapeutici, basati su una causalità lineare che vede il presente e il futuro determinati dalle esperienze passate, considera la rielaborazione del passato il fondamentale atto da realizzare nel processo di cura del paziente. Questo a scanso del fatto che la moderna scienza da oltre cento anni abbia dimostrato l’inadeguatezza di tale criterio epistemologico alla rigorosa analisi dei fenomeni umani, poiché queste si reggono su dinamiche di causalità circolare e di reciproca influenza tra i fattori in gioco. Pertanto, se indubbiamente il nostro passato ci influenza è anche perché il nostro percepirlo presente lo modifica.