21 maggio 2020

“Sapere dove è l’identità è una domanda senza risposta.”
(José Saramago)

La parola identità può essere seguita da differenti aggettivi: c’è un’identità personale, individuale, una sociale, una culturale, etnica, artistica, e via dicendo. Come vedremo, l’identità è il risultato di diverse dimensioni, da quella personale a quella sociale, da quella individuale a quella relazionale, e le ingloba tutte e in misura differente ogni qualvolta si assume un punto di vista diverso. Secondo la definizione di U. Galimberti (1999) “In psicologia, con questo termine s’intende l’identità personale, ossia il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre.”. La psicologia ha sostanzialmente accolto le riflessioni filosofiche di J. Locke e D. Hume, secondo i quali l’identità è un meccanismo psicologico. Non è semplicemente un dato da ritrovare nell’Io, ma una costruzione della memoria, nel senso che il fondamento dell’identità sta nella relazione che la memoria instaura tra le impressioni, che mutano continuamente, il presente e il passato. Si parla di crisi d’identità quando questa costruzione non risulta abbastanza solida. L’identità non si avvale solo però di una memoria individuale, ma anche di una memoria collettiva.
Il primo psicologo che ha affrontato questo tema in modo sistematico è stato W. James (1890), apportando una metafora molto bella ed esplicativa. Secondo James l’identità è un “torrente” ed ha:


  • confini distinti, ben delineati nei confronti dell’ambiente che lo circonda
  • continuità nella direzione
  • autonomia, si muove sotto il proprio peso ed impeto
Ecco i primi due aspetti già trovati prima più un nuovo aspetto importante dell’identità; se uno di questi tre viene meno si può entrare in una sensazione di paura, disagio, e passare dal panico ad un senso di depersonalizzazione, come avviene per esempio quando si ha la sensazione che forze esterne guidino le nostre azioni e i nostri pensieri, oppure quando ci ritroviamo imprigionati in ruoli che sono in contrasto con i nostri valori o ideali.
All’inizio del secolo si erano creati due filoni di ricerca: uno che faceva prevalere il carattere sociologico, indagando dall’esterno le identità (individuali, di gruppo, familiari, ecc…) e le influenze che possono avere su di essa la cultura e l’ambiente; e un altro a carattere psicologico, che dava maggiore attenzione agli aspetti interni.
Il sociologo E. Goffman (1963) propose una distinzione tra un’identità esistenziale ed una sociale: la prima è ben nota e conosciuta dal soggetto, mentre la seconda è quell’identità che si assume davanti al mondo. Immaginando la vita come un teatro, un insieme di ruoli, ogni persona dovrebbe in un certo qual modo recitare di fronte al mondo. L’attore possiede ad ogni modo la capacità di osservarsi dal fuori, quindi anche di distanziarsi dai ruoli che recita. Se esiste questa possibilità è perché, per Goffman, ci muoviamo ad un doppio livello, appunto quello di due identità.

Fu proprio uno dei creatori della psicologia sociale, G. Mead, ad evidenziare le prime difficoltà per una distinzione precisa tra personale e sociale con una concezione interazionista, secondo la quale entra in gioco una dialettica tra le diverse rappresentazioni, psicologiche e sociali: quella del soggetto che percepisce se stesso e gli altri; quella degli altri che percepiscono il soggetto e fungono per lui da feedback; e quella del soggetto che s’immedesima nel punto di vista degli altri facendo in modo che si crei un quadro di norme generali. Compare quindi quella figura che Mead definisce l’”Altro Generalizzato”, la capacità di interiorizzare norme e valori della collettività, che si ha soltanto guardandosi con gli occhi dell’altro, un processo quindi soggettivo ma che non può prescindere dall’altro e dal contesto di relazione.
Sulla scia di Mead si inserisce anche lo psicoanalista E. H. Erikson. Nell’ambiente della psicoanalisi Erikson è stato colui che più ha adottato un orientamento marcatamente socioculturale, interessandosi all’interazione dinamica tra sviluppo individuale e sistemi socioculturali, nonché al concetto di identità vista come “insieme di caratteristiche psicologiche generali che permettono di affrontare i compiti evolutivi fase-specifici lungo l’intero ciclo di vita dell’uomo” (Galimberti, 1999). L’identità quindi svolge un ruolo fondamentale per tutto il corso della vita di un uomo, non risulta mai definitiva ma piuttosto la si può pensare come ad un processo e secondo Erikson diversi aspetti dello sviluppo dell’Io possono essere formulati in termini di crescita del senso di identità. Questo sviluppo ha delle fasi cruciali e sono cosi anche in parallelo con l’identità che attraversa diversi periodi di rottura con il passato e di crisi in cui si vivono fasi di vulnerabilità, ciascuna delle quali però ricca di potenzialità per il futuro, in senso di cambiamento e trasformazione. La più importante di queste crisi nell’età evolutiva è la crisi d’identità dell’adolescenza, che ha una lunga durata, accompagna la persona durante tutta l’adolescenza e dà luogo ad una profonda trasformazione, sia fisica sia psicologica. Questa crisi non sfocia in ogni caso in soluzioni finali, e possono anche perdurare nell’individuo maturo alcuni aspetti problematici.

Parlare d’identità presuppone per forza che si parli anche d’identificazione. Molti dei problemi dell’identità si decidono a livello d’identificazione, ad esempio con le figure parentali che offrono il primo modello per la costruzione della propria identità. L‘identificazione è un “termine psicoanalitico che designa il processo con cui un soggetto assimila uno o più tratti di un altro individuo modellandosi su di lui.”. (Galimberti, 1999). L’identità non viene più intesa solamente come semplice espressione della propria personalità. Freud distingue un’identificazione primaria, in cui l’individuo deve ancora distinguere la sua identità da quella degli oggetti e deve acquistar senso la distinzione Io e Tu (questa è l’identificazione che caratterizza la prima infanzia, soprattutto la relazione con la madre che il bambino inizialmente non avverte come altro da sé), dall’identificazione secondaria, che è invece successiva alla distinzione Io e Tu. Le identificazioni portano quindi il soggetto anche a confrontarsi con le figure importanti e carismatiche della propria esistenza, con gli altri e con il proprio sistema socioculturale in cui si è inseriti, facendo acquisire all’identità un maggiore rilievo relazionale e sociale. Normalmente può essere riscontrata in diverse maniere: come un processo per l’acquisizione di ruoli sociali, assumendo come detto i tratti del comportamento degli adulti nell’infanzia, o delle persone che si ammirano nell’età adulta; come uno strumento per accrescere la propria autostima comportandosi come se si fosse la persona con cui ci si identifica; nel gruppo come identificazione in conformità a ideali e interessi comuni. Non sempre però tutte le forme di identificazione vengono vissute positivamente dal soggetto, che si vede spesso costretto a farne uso date particolari situazioni problematiche. Una di queste forme d’identificazione, che ritroveremo più avanti, è quella introdotta da A. Freud, l’identificazione con l’aggressore, dove il soggetto tende ad assumere la stessa funzione aggressiva, imita i tratti e adotta le espressioni di potenza che caratterizzano figure percepite come aggressive dal soggetto (questo può accadere per esempio in presenza di sistemi socioculturali diversi dove ci si può sentire facilmente discriminati ed emarginati). In ogni caso “Identificarsi con qualcuno è come compiere un’esplorazione dell’altro. Questo viaggio è utile in alcuni momenti o periodi della vita, nell’infanzia addirittura indispensabile.”. (A. Oliverio Ferraris, 2002)
C. G. Jung introduce anche il concetto di un’identità inconscia, differenziandola dall’identità conscia dove il soggetto riflette sulla propria continuità temporale e sulla sua differenza dagli altri. Nel caso invece dell’identità inconscia viene a mancare la autocoscienza che è presente nell’identità conscia e la distinzione psichica tra il sé e gli oggetti esterni. In proposito Jung scrive che «nella partecipazione mistica dei primitivi, nello stato mentale della prima infanzia e nell’inconscio dell’uomo civilizzato e adulto […] l’identità consiste innanzi tutto in un’uguaglianza inconscia con gli oggetti. Essa non è un’equiparazione, un’identificazione, ma un’uguaglianza data a priori che non è mai rientrata nell’ambito della coscienza. Sull’identità si basa l’ingenuo pregiudizio che la psicologia dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che dappertutto valgano gli stessi motivi, che ciò che piace a me debba ovviamente piacere anche agli altri. […] L’identità si rivela in modo particolarmente perspicuo in casi patologici, per esempio nel delirio paranoico di riferimento nel quale viene presupposta come cosa ovvia negli altri l’esistenza del proprio contenuto soggettivo.» (Jung, 1921)
Con questa breve esplorazione attraverso contributi di carattere filosofico, psicologico o sociale, otteniamo una sostanziale descrizione di che cos’è l’identità: una dimensione psichica complessa; un processo sempre in atto; un insieme e allo stesso tempo sintesi tra memorie, immagini, rappresentazioni, percezioni. Le nostre, quelle degli altri e quelle collettive.
“L’identità è come la pelle che ci ricopre: impossibile farne a meno, perché segna il confine tra l’interno e l’esterno di noi, ci definisce e [nello stesso tempo] ci consente di entrare in relazione col mondo.”. (A. Oliverio Ferraris, 2002)

15 maggio 2020

Perché si corre?

Alla prima maratona organizzata in Francia nel 1975 erano iscritti 130 partecipanti. Nel 2015 alla partenza della maratona di Parigi erano più di 40 000. Durante una sola generazione, la corsa podistica è diventata un fenomeno di massa.
Dal jogger domenicale ai praticanti dei grandi percorsi estremi (i 160 km del giro del Monte bianco), cosa rincorrono tutti costoro? Perché tanta passione per il podismo? Varie spiegazioni cercano di chiarire il fenomeno.
RITROVARE LE PROPRIE RADICI (psicologia evoluzionista)
Gli esseri umani sono “nati per correre”: è quanto sostengono alcuni autori, come Christopher McDougall (Born to run, 2009) e Bernd Heinrich (Why we run. A na- tural history, 2007). La tesi si basa sull’argomento che i cacciatori paleolitici dovevano correre per catturare la preda. La caccia per sfinimento praticata da molte tribù consiste nello stancare certe prede che, come le antilopi, sono molto veloci ma non resistono allo sforzo prolungato. Correre sarebbe quindi un istinto naturale (i bambini amano correre) inibito dalla vita sedentaria, che oggi riprende i suoi diritti. Correre sarebbe un modo per ritrovare le nostre radici arcaiche di cacciatori: una “moda paleolitica”, secondo la psicologia evoluzionista.
FARSI DEL BENE (psicologia della salute)
Molti cominciano a correre per perdere peso o per combattere lo stress. La ricerca del benessere sarebbe quindi la motivazione principale per indossare le scarpette e mettersi a correre. La ricerca medica in effetti conferma che lo sport ha effetti benefici, sia fisici che psicologici. L’attività fisica protegge dall’obesità e da numerose malattie, migliora il sonno e procura uno stato generale di forma. Dal punto di vista mentale correre, ma anche semplicemente camminare, è un efficace antistress e riduce l’ansia. Infine, studi recenti mostrano anche che la corsa migliora le prestazioni cognitive e contribuisce a ridurne il declino con l’età.
CORRERE CON GLI ALTRI E CONTRO GLI ALTRI (sociologia dello sport)
La socievolezza è una motivazione potente della pratica sportiva. Tutti coloro che fanno sport sanno che in compagnia è più facile perseverare a lungo in un’attività. L’allenamento regolare è stimolato dall’emulazione che nasce nei circoli e nelle uscite di gruppo. Correre insieme è anche un’occasione di parlare, ridere, divertirsi. Ma è anche l’occasione per confrontarsi e sfidarsi. L’etnologa Martine Segalen, nel suo libro Les entants d’Achille et de Nike (1995), descrive la socialità dei corridori di fondo, i loro rituali (dalla scelta della tenuta alla doccia), l’ebrezza della competizione, la convivialità dei gruppi di amici che condividono la stessa passione.
SUPERARE SE STESSI (filosofia della corsa)
La corsa di fondo è una prova che esige sforzo e sofferenza. Può sembrare assurda se si misura la fatica con il risultato ottenuto: nessun guadagno se non simbolico e di valore esclusivamente soggettivo (record personale, classifica). Da dove nasce allora questo bisogno di farsi del male per ottenere scopi così risibili? Etica della performance in personalità ascetiche? Volontà di potenza? Visione eroica dell’esistenza? Ricerca quasi mistica del superamento di sé? Filosofi e scrittori si sono interrogati sulle motivazioni profonde della corsa podistica (si veda la Petite bibliothèque du coureur, di Bernard Cham-Baz, 2014). C’è anche una dimensione esistenziale nella corsa, dove anima e corpo intrecciano uno strano dialogo (Courir. Méditations physiques, di Guillaume Le blanc, 2012), quando una parte di sé impone al corpo di ignorare il dolore e la stanchezza per continuare a correre (Haruki Murakami, L’arte di correre, trad. it. 2013).

12 maggio 2020

Pronto, chi parla?




Negli Stati Uniti il telefono è entrato nelle vite quotidiane delle persone all’inizio del novecento. All’epoca nessuno sapeva esattamente come si usava. L’inventore scozzese Alexander Graham Bell voleva che si cominciassero le conversazioni dicendo “Ahoy-hoy!”, mentre la At&t voleva che le persone evitassero di dire “pronto”, perché riteneva che fosse scortese.
Quando il telefono squillava, comunque, c’era un solo imperativo: bisognava rispondere. Era un pensiero che permeava la cultura di tutti, adulti e bambini. In un cartone animato concepito per insegnare ai bambini l’uso del telefono, Hello Kitty sta giocando quando si sente uno squillo. “È il telefono. Evviva!”, dice. “Mamma! Mamma! Suona il telefono. Sbrigati! O riagganceranno”.
Quando ancora non era possibile vedere l’elenco delle chiamate perse, o non esisteva la funzione per richiamare l’ultima persona che ti aveva telefonato, se non rispondevi in tempo non c’era nulla da fare: dovevi aspettare che ti richiamasse. E se quella persona aveva qualcosa di veramente importante da dirti? Perdere una chiamata era terribile. Sbrigati!
Non rispondere al telefono era maleducato e anche un po’ inquietante, come ignorare qualcuno che bussa alla porta. Per questo rispondere era una consuetudine universale.
Frammenti sonori
Personalmente non credo che ci sia bisogno di tornare allo stato originario della cultura del telefono. Si tratta semplicemente di qualcosa che è esistito, come i licheni cresciuti sulle rocce della tundra o i batteri che s’impadroniscono di un frutto caduto da un albero. Il motivo per cui m’interessa scavare in questo strato culturale è perché sta sparendo. Nessuno risponde più al telefono. Anche molte attività commerciali fanno tutto il possibile per evitare di rispondere.




Delle circa cinquanta telefonate che ho ricevuto nell’ultimo mese, avrò risposto a quattro o cinque. Uno dei motivi è che oggi abbiamo più modi per comunicare. I messaggi di testo e le loro alternative multimediali sono meravigliosi, perché mescolano parole con emoji, gif, foto, video, link. Mandare messaggi è divertente, leggermente asincrono, e si può comunicare con più persone contemporaneamente.
Questo tipo di comunicazione ha l’immediatezza di una telefonata, ma non esattamente. Usiamo Twitter, Facebook, Slack, l’email, le chiamate su FaceTime e riceviamo continuamente le notifiche. Quest’abbondanza di suoni ha reso obsolete le suonerie del telefono.
Ma c’è un altro motivo per cui, ultimamente, reagisco con sospetto allo squillo del telefono. La maggior parte delle telefonate che ricevo sono spam. Ci sono le telefonate robotizzate con messaggi preregistrati. Ci sono i cibervenditori dei call center, che leggono frammenti sonori preregistrati per simulare una conversazione. Ci sono le telefonate il cui unico obiettivo è verificare che il numero sia attivo. Sono almeno dieci anni che la Commissione federale statunitense per le comunicazioni cerca di limitare le telefonate robotizzate, ma non sembra aver invertito la tendenza.

Spesso, quando faccio l’errore di rispondere al telefono, parte un messaggio registrato

YouMail è un’app per bloccare le chiamate di questo tipo, e crea una stima di quante telefonate robotizzate si fanno ogni mese. Le cifre sono impressionanti: nell’aprile del 2018 negli Stati Uniti sono state 3,4 miliardi. Le macchine, almeno quei software che possono digitare numeri di telefono, sono economiche. Non si ubriacano, non smettono di lavorare per riprendere gli studi e non hanno figli malati. Semplicemente chiamano, chiamano e chiamano ancora.
Spesso, quando faccio l’errore di rispondere al telefono, non sento altro che silenzio, magari solo per alcuni secondi, il tempo di far intervenire una persona. O forse, se non dico niente, il silenzio dura per un tempo più lungo, finché la macchina non riattacca. A volte parte un messaggio registrato. E la cosa peggiore è che quando rispondo faccio sapere a uno spammer che il mio numero è attivo, un’informazione che rivenderà al prossimo spammer.
Ad aprile ci sono state 3,4 miliardi di telefonate simili. Ogni volta una persona ha dovuto decidere se rispondere o lasciar perdere, accettando il cambiamento.


(Traduzione di Federico Ferrone)

6 maggio 2020

Perché i giovani sono epicurei?

La nostra specie si distingue dagli altri viventi in molti modi e soprattutto perché concepisce tre diversi momenti della vita: il presente, il passato, il futuro. Noi abbiamo cioè il concetto del tempo che gli altri viventi non concepiscono. Il tempo è la principale categoria del nostro modo di essere: il calendario, l’orologio, la memoria, l’immaginazione e infine la nostra morte non sono che derivazioni concettuali del tempo ed anche la nostra ricerca della divinità lo è. Cerchiamo Dio come un’entità fuori del tempo, sempre esistente e sempre esistita, eterno. In realtà Dio è la nostra vendetta contro il tempo: è lui che l’ha creato, è lui che lo determina e lo domina perché lo trascende. Il concetto di trascendenza è assolutamente umano e fa tutt’uno con Dio.
Quante cose ha inventato l’uomo! È un capolavoro della natura che ha un solo obiettivo, un solo istinto da cui tutto nasce: esistenza, sopravvivere. È un istinto presente in tutti gli esseri viventi, dai vegetali agli animali, ma noi ne siamo consapevoli o almeno crediamo di esserlo.

I filosofi o pensatori che dir si vogliano hanno sostenuto varie interpretazioni per quanto riguarda il tempo. Altrettanto hanno fatto i poeti, i letterati, gli scienziati. Perfino i musicisti, a loro modo, perché anche la musica attraverso le sue vibrazioni sonore è capace di trasmettere il sentimento del tempo: il ritmo è un tempo, il mutamento delle note, la loro alternanza e la velocità con cui avviene.

Alcuni hanno confermato l’esistenza mutevole del tempo, altri l’hanno negata o l’hanno resa perfino reversibile nel senso che può procedere non già in avanti dal presente al futuro ma perfino all’indietro.

L’ha fatto Einstein attraverso formule matematiche ed anche la meccanica quantistica. Tra i filosofi l’ha scritto a suo modo Epicuro e, altrettanto a suo modo, il Faust e Goethe: l’evocazione dell’attimo fuggente, il tentativo di fissare il tempo in un momento di felicità che s’identifica col presente e svanisce se scorre verso un incognito futuro o verso un passato che ispira la nostalgia di averlo vissuto ma non tornerà più.

EPICURO È DIVERSO: esorta gli uomini a inchiodare il tempo sul presente e vivere quel presente nel modo più soddisfacente possibile saziando in quel momento tutti gli appetiti dei quali la sua natura gli chiede soddisfazione. E lui li soddisfa e continua a soddisfarli man mano che la natura, dopo esser stata saziata, glieli propone di nuovo. Insomma desideri ripetitivi che non hanno un futuro ma si inchiodano appunto ad un presente che tale rimane perché si ripropone. L’attimo fuggitivo non fugge più perché viene costantemente soddisfatto.
Naturalmente Epicuro è ben consapevole che il presentimento della morte insidia la felice soddisfazione dei desideri, ma trova un modo alquanto sofisticato di sgominarlo: quando la morte verrà a posare la sua mano sulle tue spalle tu sarai già fuori dalla percezione della vita e quindi non ti accorgerai di morire. Perciò la morte non ti riguarda. È vero che spesso la morte viene dopo un lungo periodo di sofferenze, ma la reazione del vivente e la sua sofferenza non riguardano la morte che semmai sarebbe attesa come fosse una liberazione: riguardano la battaglia contro la malattia che produce la sofferenza nel moribondo. Il suo impegno è teso a vincere quella battaglia, non a sconfiggere la morte.

Difficile dire se Epicuro interpreta adeguatamente la vita, la felicità, attraverso la limitazione del tempo al presente; questo è il suo tentativo. Per quanto mi riguarda constato tuttavia che la grande maggioranza della nostra specie privilegia, magari senza rendersene ben conto, il presente rispetto al futuro e al passato. I giovani specialmente. Senza saperlo sono epicurei ed è del tutto fisiologico: il loro passato è ancora molto breve, il loro futuro non programmabile; perciò il loro tempo privilegia soprattutto il presente. Cercano esperienze e se sono soddisfacenti le ripetono.
Da questo punto di vista Epicuro non è un filosofo da buttar via: interpreta soprattutto una fase della vita, a volte con risultati positivi per sé e per gli altri, a volte negativi per tutti. Ma questa è la vita, con i suoi pianti e la sua allegria.

3 maggio 2020

Posa il tuo bicchiere

Un giovane psicologo stava facendo una lezione formativa su come imparare a gestire meglio lo stress.
Appena sollevò un bicchiere d’acqua, il pubblico immaginò che avrebbe posto la solita e fatidica domanda: «Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto...???».
Invece domandò: «Quanto credete che pesi questo bicchiere di acqua...???».
Le risposte variarono da 200 a 400 grammi. 
«Il peso assoluto non conta…», replicò il giovane psicologo, «dipende dal tempo in cui lo reggo. Se lo sollevo per un minuto, non è un problema, non faccio alcuna fatica. Se lo sorreggo per un’ora, invece il braccio mi farà male. Se lo reggo per tutto il giorno, il mio braccio sarà pietrificato e distrutto. A ogni modo il peso del bicchiere non cambia, ma più a lungo lo sollevo, più diventa pesante».
E concluse: «Gli stress e le preoccupazioni della vita sono esattamente come quel bicchiere d’acqua. Se ci pensate per un momento, non accade nulla. Pensateci un po’ di più e incominciano a far male. Pensateci tutto il giorno e vi sentirete paralizzati e incapaci di far qualsiasi cosa. Quindi alla sera, il più presto possibile, posate i vostri fardelli. Non portateli addosso per tutta la sera e tutta la notte. Ricordatevi di posare il bicchiere d’acqua…».

30 aprile 2020

Una sterilizzazione di massa

Era il 1973 quanto Katie Relf, una donna di colore dell’Alabama, povera e analfabeta,  firmò con una X un documento in cui autorizzava, senza saperlo, la sterilizzazione chirurgica delle sue due figlie minorenni e mentalmente disabili: Mary Alice, di quattordici anni e Minnie, di dodici. Katie pensava di aver approvatol’inserimento della spirale intrauterina per le bambine che invece vennero private, senza il consenso informato di nessuno, dei loro diritti riproduttivi. L’anno seguente, il Southern Poverty Law Center, un’organizzazione nata appena tre anni prima per aiutare gli afroamericani che vivevano in condizioni di estremo disagio sociale, squarciò il velo rivelando che una grandissima quantità di persone indigenti era stata sterilizzata seguendo le direttive di un programma federale.
Sorelle Relf
Quando si parla di eugenetica, si pensa subito al nazismo. L’idea che la manipolazione genetica e la selezione delle nascite possa portare al miglioramento della società era molto diffusa agli inizi del secolo scorso, con il beneplacito di medici, legislatori e intellettuali. Quest’idea si basava su un principio molto semplice, ovvero che la società andasse ripulita da tutti quegli individui che avrebbero potuto ostacolare la perfezione della razza e il progresso – disabili, persone affette da malattie mentali o appartenenti a razze considerate inferiori, omosessuali. Una soluzione per perseguire questo obiettivo, prima di passare all’eliminazione fisica con l’Aktion T4,sotto il regime nazista, fu la loro sterilizzazione. Le Erbgesundheitsgerichten, le “Corti per la salute ereditaria” istituite nel 1933, erano gli organi nazisti preposti al controllo delle nascite che fino alla caduta del regime sterilizzarono fino a 400.000 persone.
In realtà, però, i prodromi dell’eugenetica non nascono da dittature e regimi oppressivi, ma dai democraticissimi Stati Uniti, dove istituzioni private come la Rockfeller Foundation finanziavano studi e ricerche a cui partecipò anche Josef Mengele, passato alla storia come il “medico della morte” di Auschwitz. Questi studi venivano condotti principalmente nelle prigioni e presso il New York Bureau of Industries and Immigration sugli immigrati ebrei e italiani, tra le vittime di sterilizzazione coatta più colpite. Far sì che queste popolazioni non proliferassero contaminando quella americana era considerato un dovere morale. Il delirio “progressista” dell’eugenetica non riusciva a individuare una connessione tra il disagio sociale degli immigrati e le loro condizioni di vita disumane, ma trovava più che ovvio pensare che criminalità, malattie e analfabetismo fossero conseguenze dirette dell’appartenenza a una razza inferiore, come erano viste quella italiana, ebrea o latina. Poiché fermare l’immigrazione sembrava impossibile, l’unica soluzione a cui si pensò fu quella di cercare di bloccare la riproduzione dei nuovi arrivati.
Il governo non solo approvò i programmi di sterilizzazione forzata, ma li portò avanti fino agli anni ’70. Si stima che dagli anni ’30 fino alla conclusione del piano, negli Stati Uniti siano state sterilizzate 65.000 persone. Queste sterilizzazioni avvenivano spesso coattivamente su individui che non avevano facoltà di scelta, ad esempio nei manicomi, oppure con l’inganno, come nel caso delle due sorelline Mary Alice e Minnie. I “pazienti” venivano spesso convinti dai medici di avere malattie incurabili, oppure alle donne che volevano abortire veniva praticata l’isterectomia, la rimozione dell’utero, senza un vero motivo medico. In altri casi, compagnie assicurative o programmi di welfarestatali si spingevano verso zone rurali, soprattutto negli Stati del Sud, e proponevano la sterilizzazione tubarica o la vasectomia come soluzioni contraccettive gratuite e veloci, senza che le vittime conoscessero realmente le conseguenze di tali interventi. Inizialmente i programmi di sterilizzazione furono pensati come tentativi di fermare un “morbo” – che fossero vere e proprie malattie mentali o soltanto condizioni di disagio sociale – ma verso gli anni ’60 si trasformarono in un vero e proprio modo per controllare le donne, soprattutto quelle di colore. Bastava infatti molto poco per bollare una ragazza sessualmente promiscua come “minorata mentale” e poter procedere in modo del tutto legale alla sua sterilizzazione.
Da un lato, la sterilizzazione forzata, secondo l’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, costituisce un crimine contro l’umanità, perché viola i diritti fondamentali alla riproduzione e alla salute; dall’altro, è un crimine di genere, perché sebbene sia stata spesso imposta sia a uomini che a donne, ha colpito più duramente quest’ultime, soprattutto quelle facenti parte di una minoranza (afroamericane, latine o native). Quasi tutte le vittime di sterilizzazione forzata erano in qualche modo già sottoposte al controllo dello Stato, tramite, ad esempio, l’edilizia popolare, le indennità di disoccupazione, gli istituti per la salute mentale o le istituzioni carcerarie. Il governo, per convincere le donne a firmare i documenti di autorizzazione alla sterilizzazione, faceva presa sulla loro coscienza puntando su temi già molto delicati, come la povertà o l’inadeguatezza al ruolo di madri. Agendo su soggetti già fragili, le conseguenze della sterilizzazione forzata erano e sono tuttora devastanti, dalla Sindrome Post Traumatica da Stress alla perdita di identità. Non da ultimo, il fatto che nella maggior parte dei casi queste persone provenissero da gruppi di minoranza ha aggiunto ai disagi della maternità privata anche l’impossibilità di identificarsi in una comunità. L’auto-definizione, secondo l’autrice Dorothy Roberts, è un fattore fondamentale per l’identità delle donne afroamericane, perché lo Stato per lungo tempo gliene ha negata una. Le donne di colore si sono autocostruite un’identità sulla base del loro genere e della loro etnia, rivendicando il loro ruolo di minoranza tramite una comunità autoprodotta. Essere sterilizzata in una comunità simile ti rende ancora più minoranza di quanto non fossi prima: vivi la tua sterilizzazione non solo come “punizione” per il fatto che sei una donna, ma soprattutto perché sei una donna nera. La tua integrità corporea è venuta meno, così come la possibilità di coesione al gruppo delle “madri”, che diventava cruciale in un contesto come quello statunitense degli anni ’50 o ‘60, dove gran parte dell’identità delle donne di colore si affermava proprio attraverso la maternità.
Il corpo delle donne è stato più volte, in particolare negli Stati Uniti, terreno di una battaglia politica dove l’autorità è intervenuta per imporre le proprie idee conservatrici e retrograde. Basti pensare tutt’oggi alle dure regolamentazioni sull’aborto, all’ossessione del sistema educativo per il tema dell’astinenza, che più che educare umilia gli adolescenti sessualmente attivi, oppure alla difficoltà, soprattutto per le donne di colore, di beneficiare di cure ginecologiche e ostetriche adeguate, come dimostra il fatto che il tasso di mortalità durante il parto di quest’ultime sia tre volte superiorea quello delle donne bianche. Lo scorso ottobre, l’amministrazione Trump ha eliminato un mandato dell’Obamacare che garantiva la copertura contraccettiva gratuita da parte delle aziende per le impiegate di sesso femminile, rendendo possibile il rifiuto di questa protezione sulla base di “obiezionimorali o religiose”. Ma questa è una triste tradizione che va avanti fin dalla fine dell’Ottocento, quando si passò dalla massiccia sterilizzazione degli uomini nelle carceri e nei manicomi a quella delle donne comuni, che avevano la sola sfortuna di essere nate povere e nere. Il corpo libero delle donne era visto come una minaccia imprevedibile e irrazionale, come vuole lo stereotipo della donna indomabile e “isterica”. Le intrusioni dello Stato non riguardano le donne in quanto soggetti, ma in quanto corpi che non possono liberamente autodeterminarsi, e di cui ci si arroga il diritto di controllare, delimitare e imprigionare. Il primo bersaglio da colpire è la sessualità: rendere la contraccezione e l’aborto procedure impossibili e costose, inculcare l’idea che ogni rapporto sessuale sia il male, mutilare la donna privandola dei suoi organi riproduttivi. Lo Stato si pone come garante della salute pubblica e individuale ricorrendo a queste misure per nascondere dietro la scusa della sua funzione pedagogica, una ben più radicata funzione coercitiva e autoritaria.
Il problema della sterilizzazione forzata non è parte esclusiva del passato americano,  purtroppo è ancora ben presente. Le migliaia di vittime, sottoposte alla procedura negli anni ’60, ’70 e ’80, magari quando erano ancora bambine, portano ancora addosso i segni fisici e psicologici di questa violenza, senza che nessuno abbia mai chiesto loro scusa o le abbia risarcite in qualche modo. E, come se non bastasse, esistono casi in cui la sterilizzazione forzata è stata praticata in tempi recenti.
Nonostante in molti degli Stati sia stata dichiarata illegale, la procedura viene tuttora eseguita, soprattutto nei confronti delle donne afroamericane. Si stima che nel 1990, a vent’anni dalla fine del programma federale, il 24% delle donne di colore sia stata sterilizzata in modo coatto. Molto spesso queste operazioni venivano eseguite dopo un aborto in giovane età in contesti sociali difficili, come racconta Maria in una puntata del podcast “The Heart”. Maria, una ragazza di origini portoricane rimasta incinta a 15 anni, andò in una clinica per abortire e si risvegliò dall’operazione senza utero, dopo che il personale medico le aveva detto: “Questo è quello che ottieni quando fai sesso così presto”. Ma il caso più grave, per la sua diffusione e sistematicità, è quello delle prigioni. Nelle carceri californiane, tra il 2006 e il 2010, circa 150 donne sono state sterilizzate tramite legatura delle tube su volontà dei medici e dei dipendenti del carcere grazie ai fondi erogati dallo Stato della California, nonostante il Titolo 42 delle leggi federali dedicato alla sanità pubblica proibisca esplicitamente la sterilizzazione di “qualsiasi individuo incapace o internato”. I dipendenti delle carceri, incalzati dalla redazione del Center for Investigative Reporting, a loro difesa dissero che stavano semplicemente fornendo un importante strumento per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Uno strumento che disumanizza le donne considerate inadatte al miglioramento della società. Il caso delle prigioni californiane dimostra come ancora oggi il germe dell’eugenetica e del progresso a tutti i costi sia ben radicato in una società come quella americana che eppure si professa civile e democratica.
È vero che la maggior parte degli Stati ha cancellato le leggi sulla sterilizzazione forzata, ma in alcuni, come ad esempio lo Stato di Washington, esistono ancora. Nel 2011, la North Carolina ha avviato le procedure per risarcire le vittime di sterilizzazione forzata costituendo l’NC Justice for Sterilization Victims Foundation e stanziando, a partire da giugno 2015, dieci milioni di dollari da distribuire a 7.600 persone. Ma è l’unico Stato americano ad aver pensato a un risarcimento – per quanto possa contare. Si deve fare ancora molto per dare riconoscimento e dignità alla storia delle sterilizzazioni forzate negli Stati Uniti. Le istituzioni, a parte le scuse pubbliche e i tentativi di risarcimento, non sembrano far nulla per creare sensibilizzazione su questa pagina importante della storia recente americana. Gruppi di studiosi e ricercatori, come quello guidato da alcune scholars dell’Università del Michigan e dell’Illinois, stanno conducendo studi per cercare di definire tutti i numeri del fenomeno e, soprattutto, invitare le superstiti a far sentire la propria voce. Al momento, sono gli unici testimoni di questa storia. L’impressione è che gli Stati Uniti abbiano grosse difficoltà non tanto ad assumersi la responsabilità, ma anche solo ad ammettere di aver violato sistematicamente i diritti umani per più di cinquant’anni. Nel 2014, un anno dopo lo scandalo delle carceri, la California ha vietato la sterilizzazione nei penitenziari a eccezione di casi che compromettano la salute pubblica. Si stima che dal 1909 al 1963, nella sola California siano state sterilizzate 20.000 persone. Nessuna di queste è stata mai risarcita

24 aprile 2020

Perché inventiamo sempre dei nuovi problemi

In questo mondo è tutto così terribile o le cose stanno migliorando? È un tema di cui si discute molto perché entrambe le cose sembrano vere. Da una parte, sarebbe sciocco non tener conto delle statistiche (povertà, violenza e malattie stanno veramente diminuendo); dall’altra, non possiamo ignorare le orribili notizie che sentiamo ogni giorno. Perciò sono grato a un affascinante studio, pubblicato di recente dalla rivista Science, che getta nuova luce sulla questione. Anche se parte da una domanda apparentemente assurda che sembra non avere niente a che fare con l’argomento: come definireste un “puntino blu”?
Ai partecipanti all’esperimento sono state mostrate centinaia di puntini di colori che andavano dal viola intenso al blu scuro, e per ciascuno dovevano dire se era blu o no. Ovviamente, più il puntino era scuro, più le persone tendevano a dire che lo era. Ma la cosa interessante è successa quando i ricercatori hanno cominciato a ridurre la percentuale dei puntini blu.
Espansione strisciante del concetto
Più quelli che lo erano oggettivamente diminuivano, più la definizione di blu dei soggetti si allargava e cominciavano a classificare come blu anche quelli violacei. La loro idea di blu era diventata più estesa, un fenomeno che gli autori dello studio hanno chiamato “cambiamento di concetto indotto dalla prevalenza”. Questo chiaramente non ha niente a che vedere con problemi sociali come la povertà e il razzismo, o forse sì.
Qualcuno sostiene che viviamo in un’epoca in cui concetti come quelli di “trauma” o di “violenza” sono stati estesi fino a includere cose di cui quasi nessuna generazione precedente si sarebbe preoccupata (il termine usato in inglese per questo fenomeno è concept creep, l’estensione strisciante del concetto).
Da qui nasce l’idea che un certo modo di parlare equivale a una violenza. O che lasciar andare da solo a scuola un bambino di otto anni significa abbandono di minore. O, per prendere un esempio dall’attuale dibattito sull’identità di genere, che mettere in discussione il modo in cui una persona preferisce spiegare la propria esperienza di genere significa negare il suo diritto all’esistenza.
Dalle fasi successive dello studio sui puntini blu è emerso che “il cambiamento di concetto indotto dalla prevalenza” influisce anche su questo. Per esempio, se chiediamo a un gruppo di persone di classificare una serie di facce come “minacciose” o “non minacciose” e poi riduciamo il numero delle prime, definiranno minacciose anche facce dall’espressione più neutrale.
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Se chiediamo di classificare una serie di proposte come morali o immorali, e riduciamo il numero di quelle immorali, i soggetti allargheranno il loro concetto di “immorale” anche a quelle morali. Per dirla con Dan Gilbert, uno degli autori dello studio, “quando i problemi diventano meno numerosi, cominciamo a considerare più cose come un problema”.
Questo ha enormi implicazioni per le persone con una mentalità progressista, perché fa pensare che, anche se le cose stanno migliorando, abbiamo difficoltà a percepirlo, perché tendiamo a vedere nuovi problemi. Il che non significa che non siano reali. Questo atteggiamento non è sempre sbagliato. Per usare l’analogia di Gilbert, è giusto che un medico del pronto soccorso consideri più urgente una ferita da arma da fuoco rispetto a un braccio fratturato, mentre se non c’è nessuna ferita da arma da fuoco da curare, fa benissimo ad allargare il suo concetto di “urgenza” a un braccio fratturato. Ma è anche vero che un neurologo non dovrebbe allargare la sua definizione di “tumore al cervello” solo perché non ne ha riscontrato nessuno.
Per quanto riguarda i problemi sociali – o i nostri personali – la questione sta nel chiederci se la cosa che ci preoccupa è più del primo o del secondo tipo: un problema veramente serio, o uno che abbiamo praticamente inventato? Sembra che niente stia migliorando, ma forse abbiamo questa sensazione perché continuiamo a spostare i paletti.
Da ascoltare
Dato che secondo le statistiche il mondo sta migliorando, non dovremmo smettere di preoccuparci? I sostenitori delle due tesi ne discutono in The new optimism, una puntata del podcast Intelligence squared.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

21 aprile 2020

Pensare positivo non basta

Pensare positivo non ci porta a essere realizzativi. È la teoria di Gabriele Oettingen, docente di psicologia alla New York University e all’Università di Amburgo.
Aveva dunque torto Jovanotti. Ma non solo lui. Del culto dell’ottimismo ne hanno fatto un modus vivendi un po’ tutti. Da sempre. Marco Aurelio si soffermava sulla bellezza della vita, Samuel Johnson diceva che il lato positivo di ogni evento vale più di mille sterline l’anno, il presidente Dwight Eisenhower dichiarò che ‘il pessimismo non ha mai vinto una battaglia’, Charlie Chaplin affermò: ‘Non troverai mai un arcobaleno se stai guardando per terra’. Per non parlare di politici di ogni livello che blandiscono la popolazione vendendo ‘sogni americani’ e cercando di presentarsi come glialfieri della speranza. Ma anche di economisti che registrano la ‘fiducia dei consumatori’ e apprezzano le previsioni dei leader di mercato in base a quanto sono ottimistiche. Pure la pubblicità propone persone felici e ottimistecome modelli di successo. C’è una massima che circola in rete che recita: “Sognalo. Desideralo. Fallo”.

Invece secondo le ricerche scientifiche svolte dalla Oettingen così facendo non si arriva da nessuna parte. Lo sostiene nel libro Io non penso positivo edito da Tlon.
Abbandonarsi alle fantasie che riguardano il futuro non ci fa agire in maniera costruttiva”, spiega. “Nonostante nel breve termine possa risultare piacevole, in realtà non fa altro che svuotare il nostro impegno e condurci a esitare continuamente”. Gli esperimenti effettuati in 20 anni di studio hanno dimostrato che le fantasie positive ci impediscono di gestire compiti difficili, ma spronano a compiere quelli facili. Non ci aiutano, quindi, a dimagrire, a smettere di fumare, a trovare lavoro, ma ci servono per rimanere vivi nel deserto, per resistere alla repressione politica, per mantenere la fiducia mentre aspettiamo la sentenza del nostro fidanzato.
Alle fantasticherie non bisogna chiedere più di quello che possono darci. Se ne comprendiamo e riconosciamo i limiti, saranno nostre alleate e non ci freneranno nella vita. Ma per realizzare i nostri sogni, dobbiamo innanzitutto mettere a fuoco le barriere e gli ostacoli che ci impediscono di portarli a termine.
Nello specifico la ricerca della Oettingen propone una procedura di quattro passaggi basata sul contrasto mentale, chiamata WOOP, acronimo di Wish, Outcome, Obstacle, Plan, ovvero desiderio, risultato, ostacolo, piano.
In pratica, da un desiderio, identificato il risultato migliore, con un piano, e con le connessioni cognitive tra futuro, ostacolo e comportamento utile, ci troviamo nella posizione di gestire le difficoltà e affrontare con maggiore sicurezza la situazione. Cosa che vale per qualsiasi circostanza della vita.
“Mettiamo il caso che tu stia per salire su un palco per parlare davanti a duecento persone”, chiarisce la ricercatrice. “Hai tre minuti per fare il tuo esercizio di WOOP. Qual è il tuo desiderio? Fare un buon lavoro. Che risultato vorresti ottenere? Entrare in sintonia con il pubblico e riuscire a trasmettere il tuo messaggio. Immaginalo. Cosa c’è dentro di te che fa da ostacolo? Forse si tratta di un’ansia generale, ‘mi imbarazzerò’, o di un problema tecnico più specifico ‘parlo troppo velocemente’. Fatto questo, le strategie si materializzano con facilità: ‘Se ho l’ansia, ricorderò a me stesso di aver già fatto cose del genere con successo’, ‘se mi dovessi accorgere di parlare troppo velocemente, rallenterò”.
Ebbene, secondo Gabriele Oettingen, i nostri sogni possono essere realizzabili, ma non sono altro che sfide che richiedono impegno e azione. “La soluzione, confermata dagli esperimenti condotti, non è fare a meno dei sogni e del pensiero positivo”, afferma. “Anzi, si tratta di realizzare le nostre fantasie mettendole in contatto con la cosa che ci hanno insegnato a ignorare o a minimizzare: gli ostacoli che si trovano sul nostro percorso”.

15 aprile 2020

Scegliere di rimanere in ombra

Scegliere di non pubblicizzare le proprie buone azioni o le doti intellettuali può essere vantaggioso nel lungo termine. Uno studio svela che a fronte di un costo iniziale maggiore chi è più riservato può avere successo.
Non rivelare a tutti il proprio titolo accademico, fare donazioni in maniera anonima, non esaltare le proprie doti intellettuali o artistiche: a volte scegliamo di rimanere in ombra piuttosto che esibire le nostre azioni o capacità. Questa scelta, prova della nostra modestia, può non portarci il giusto riconoscimento da parte degli altri, soprattutto all’inizio, ma a lungo termine può rivelarsi vantaggiosa.
A studiare le radici del comportamento modesto è un gruppo di ricerca dell’Istituto di scienza e tecnologia in Austria. I risultati sono pubblicati su Nature Human Behaviour.
Da cosa dipende la scelta di non svelare – o almeno non sempre – un’azione generosa, un’abilità particolarmente sviluppata o un risultato di qualità, e perché gli altri la trovano apprezzabile? Questa la domanda che si sono posti gli autori, secondo cui non diffondere alcuna informazione è già di per sé un segnale. Le motivazioni possono essere di vario tipo: ad esempio, il donatore non desidera fare una buona impressione su tutti, ma soltanto su chi è in grado di cogliere e riconoscere la sua buona azione o la sua opera, se si tratta di un artista. Il donatore può essere sicuro che un certo “pubblico”, quello a cui si rivolge, saprà individuare ed apprezzare la sua produzione, senza bisogno di pubblicizzarla.
Per capire quali sono i percorsi della modestia, i ricercatori hanno proposto un gioco virtuale in cui un gruppo di volontari venivano divisi in mittenti, che nella realtà corrisponderebbero a ipotetici donatori o persone con elevate qualità in ambito umano, economico o sociale, e persone riceventi, ovvero il pubblico che osserva dall’esterno le azioni altrui. Ciascun donatore può fare regali di grande, medio o basso valore, ma i riceventi non sono a conoscenza di quanto può donare. I destinatari, inoltre, possono decidere liberamente se interagire economicamente o meno con i loro partner (accettandoli o meno nel gioco ) e la scelta si basa soltanto sui segnali che i donatori possono mandare.
All’inizio, il donatore sceglie fra tre azioni: non inviare alcun segnale, lasciando decidere il partner senza informazioni, mandare un segnale chiaro, che verrà sempre e sicuramente intercettato, oppure inviare lo stesso segnale ma tenendolo nascosto (in entrambi i casi l’invio ovviamente ha un costo, seppure virtuale). Solo in pochi casi il destinatario riceve il segnale inviato in maniera anonima. A questo punto tocca al ricevente scegliere se accettare o meno il donatore come partner economico.
Si tratta di un gioco matematico che combina qualità umane e strategia: nel caso in cui le informazioni vengano tenute sempre nascoste, infatti, il rischio è che i destinatari non vengano mai a conoscenza delle qualità del donatore. “Volevamo comprendere qual è l’evoluzione naturale più probabile e stabile delle strategie scelte”, ha spiegato Christian Hilbe, co-primo autore del paper. L’idea è quella di capire anche quali sono i comportamenti che ci permettono di guadagnare o non perdere la stima degli altri. In particolare, i ricercatori hanno mostrato che lo scenario più comune, che rispecchia ciò che avviene nella realtà, è quello in cui chi invia molti segnali (che corrisponde nella realtà ad una persona che fa molte donazioni) lo fa sempre sempre in maniera anonima, mentre i donatori “medi” a volte mantengono il riserbo e altre volte no. Infine chi dona poco risparmia e non manda mai segnali. La scelta di essere sempre modesto, inoltre, nel caso di un partecipante che dona molto, paga: nel gioco i riceventi decidono più spesso di accettarlo.
I ricercatori, inoltre, hanno sviluppato diverse varianti del gioco per rappresentare quanti più scenari possibili: ad esempio, in un caso il donatore aveva ancora una maggiore libertà di scelta sulla possibilità su quanto rivelare le sue buone azioni. Risultato? I donatori di alto livello tendevano ad essere modesti, ma non troppo, spiegano gli autori, preferendo una giusta dose di riservatezza“Anche se sei modesto non cerchi mai di essere il più umile fra gli umili”, sottolinea Hilbe. Questo modello potrebbe aiutare ad avere nuovi punti di vista sui comportamenti di alcune persone, come un innamorato che tiene segreto il suo interesse, senza mettersi in mostra, un professoreaccademico che non esibisce i suoi titoli oppure un artista che crea opere contenenti messaggi nascosti.

12 aprile 2020

Qundo tocchi il fondo

E’ proprio quando pensi di morire di dolore, di dover affrontare una situazione che supera di gran lunga le tue capacità, la tua fantasia, le tue possibilità, che scopri una parte di te sconosciuta e importantissima. E’ li che viene fuori la grinta, la voglia di farcela, la necessità e la responsabilità di andare oltre. E’ proprio quando senti che stai definitivamente per soffocare, che finisci per imparare a respirare.
Anton Vanligt